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Con il presente contributo ci si prefigge il timido e modesto obiettivo di riassumere i tratti salienti delle due principali forme di opposizione rinvenibili più di frequente nelle procedure esecutive (l’opposizione all’esecuzione e l’opposizione agli atti esecutivi), focalizzando l’attenzione sulla giurisprudenza storica, su quella più recente e sulle conseguenze discendenti dalla più comune attività del giudice: l’attività di riqualificazione della opposizione presentata dalla parte istante

1. Opposizione all’esecuzione ed opposizione agli atti esecutivi.

La copiosa produzione scientifica e la pregevole giurisprudenza esistente in materia di esecuzione forzata rendono superflua una analisi dettagliata dei due istituti della opposizione all’esecuzione e della opposizione agli atti esecutivi. In questa sede ci si vuole limitare a schematizzare brevemente quali sono i principali “motivi” di opposizione ex art. 615 cpc ed ex art. 617 cpc, tralasciando le distinzioni tra opposizioni inserite in procedure esecutive già avviate ed opposizioni ad esecuzioni non ancora iniziate, per le quali si rinvia alle norme del codice di procedura civile ed ai tanti e più autorevoli contributi scritti in materia. Brevemente ed a titolo esemplificativo e non esaustivo, costituisce valida ragione per opporsi all’esecuzione: 1.) l’assenza o l’inidoneità del titolo esecutivo; 2.) un credito incerto, illiquido ed indeterminato. Costituisce, invece, valido motivo per opporsi agli atti esecutivi”: 1.) un titolo notificato ma privo di formula esecutiva; 2.) ogni forma di vizio formale degli atti e dei provvedimenti posti in essere o emanati nel corso del processo esecutivo.

2. Gli interventi titolati e non titolati: focus su Corte di cassazione n. 774 del 19 Gennaio 2016.

Elencate le principali “cause” di opposizione, appare opportuno soffermare l’attenzione sulla disciplina dell’intervento del creditore nella procedura esecutiva. Quest’ultima è, in linea di massima e, come sempre, in estrema sintesi, affidata a tre principali norme: l’art. 499 cpc, l’art. 565 e l’art. 566 cc. A mente della prima norma, possono intervenire nell’esecuzione i creditori che nei confronti del debitore hanno un credito fondato su titolo esecutivo, nonché i creditori che, al momento del pignoramento, avevano eseguito un sequestro sui beni pignorati ovvero avevano un diritto di pegno o un diritto di prelazione risultante da pubblici registri ovvero erano titolari di un credito di somma di denaro risultante dalle scritture contabili di cui all’articolo 2214 del codice civile. Il legislatore precisa, altresì, che il creditore privo di titolo esecutivo che interviene nell’esecuzione deve notificare al debitore, entro i dieci giorni successivi al deposito, copia del ricorso, nonché copia dell’estratto autentico notarile attestante il credito se l’intervento nell’esecuzione ha luogo in forza di essa.
I successivi due articoli inizialmente citati, ovvero l’art. 565 c.p.c. e l’art. 566 c.p.c., invece, disciplinano rispettivamente l’intervento tardivo del creditore chirografario e l’intervento tardivo dei creditori iscritti e privilegiati.
Per i creditori chirografari che intervengono oltre l’udienza indicata nell’art. 564 cpc, ma prima di quella prevista nell’art. 596, è prevista la possibilità di concorrere alla distribuzione di quella parte della somma ricavata che sopravanza dopo soddisfatti i diritti del creditore pignorante e di quelli intervenuti in precedenza e a norma dell’articolo seguente.
A norma dell’art. 566 c.p.c., ai creditori iscritti ed ai creditori privilegiati che intervengono oltre l’udienza indicata nell’art. 564 c.p.c., ma prima di quella prevista nell’art. 596 c.p.c., è concesso di concorrere alla distribuzione della somma ricavata in ragione dei loro diritti di prelazione, e, quando sono muniti di titolo esecutivo, è concesso loro di provocare gli atti della espropriazione.
Chiarito il basilare dato normativo, in questa sede, ad integrazione di un precedente contributo comparso su questa rivista[1], con il quale è stata esaminata una sentenza della Corte di cassazione del 2022 in materia di intervento non titolato, si vogliono ricordare i passaggi salienti di altra (ma più remota) pronuncia della medesima Suprema Corte.  
Concentrando l’attenzione soprattutto sull’intervento non titolato, la Corte ricorda che l’art. 499 c.p.c. individua tre tipologie di possibili interventori non assistiti da titolo esecutivo, abilitando per l’appunto all’“intervento nella procedura esecutiva” i creditori che, al momento del pignoramento:
a) abbiano eseguito un sequestro sui beni staggiti;
b) vantino su detti beni un diritto di pegno o un diritto di prelazione risultante da pubblici registri;
c) siano titolari di un diritto di credito di una somma di denaro risultante dalle scritture contabili di cui all’art. 2214 del codice civile.
“[…] Si tratta [chiariscono i Supremi Giudici] di fattispecie accomunate sì dall’elemento temporale della necessaria anteriorità del credito rispetto al pignoramento, ma afferenti a situazioni eterogenee: nel caso del creditore pignoratizio viene in rilievo la particolare relazione con il bene oggetto dell’aggressione e la idoneità della vendita forzata a produrre il cd. effetto purgativo, ovvero la estinzione dei diritti di prelazione gravanti sul bene staggito […]. Nelle ora descritte vicende, la mancanza di un titolo esecutivo a base dell’intervento ha indotto il legislatore ad apprestare, a tutela del debitore esecutato, un sistema di controllo sull’an e sul quantum della pretesa creditoria affermata dall’interventore. [Sul debitore esecutato] grava uno specifico onere di contestazione del credito dell’interventore non titolato, da esercitarsi in un’udienza ad hoc fissata: in caso di riconoscimento della pretesa (oppure di mancato disconoscimento espresso) il creditore intervenuto non titolato acquista la facoltà di partecipare alla distribuzione della somma ricavata per l’intero ed in modo pieno, ossia al pari di un creditore titolato e senza necessità di munirsi di titolo esecutivo, almeno ai fini di quel processo esecutivo; qualora invece il debitore effettui il disconoscimento, al creditore non riconosciuto viene garantito soltanto l’accantonamento in sede distributiva degli importi per i quali egli sarebbe stato utilmente collocato nel riparto […]”.
Ebbene, il discrimen temporale tra interventi tempestivi e tardivi, viene fissato dallo stesso legislatore, stabilendo che l’intervento debba avere luogo:
nell’espropriazione mobiliare, giusta l’art. 525 cod. proc. civ., “non oltre la prima udienza fissata per l’autorizzazione della vendita o per l’assegnazione” (ovvero, nella cd. piccola espropriazione mobiliare, non oltre la data di presentazione dell’istanza di assegnazione o di vendita: art. 525, terzo comma);
 – nell’espropriazione presso terzi, non oltre la prima udienza di comparizione delle parti (art. 551, secondo comma, cod. proc. civ.);
nell’espropriazione immobiliare, a mente dell’art. 564, primo comma, cod. proc. civ. “non oltre la prima udienza fissata per l’autorizzazione della vendita”.
Nel caso concreto che ha interessato da vicino la pronuncia in esame il Tribunale di Vicenza aveva “[…] in buona sostanza, attribuito all’art. 499, secondo comma, cod. proc. civ. valenza di norma speciale […] relativa unicamente agli interventi non titolati e per questi prescrivente, mediante la fissazione di un limite temporale al deposito del ricorso, una vera e propria condizione di ammissibilità dell’intervento. Tale lettura è effettivamente conforme allo spirito di accelerazione e semplificazione della riforma del 2006; ed obiettivamente essa è coerente anche con una finalità di tutela avanzata del debitore, nei cui confronti l’ammissione di un intervento non titolato è controbilanciata dalla offertagli preliminare facoltà di paralizzarlo mediante semplice e discrezionale o non motivato disconoscimento […]”.
Alla summenzionata ricostruzione, la Corte replica che l’art. 499 cod. proc. civ. avrebbe come precipuo oggetto la regolamentazione del ricorso per intervento, mentre la specifica disciplina temporale dell’intervento sarebbe dettata, nell’ambito dei singoli paradigmi procedimentali della espropriazione, dagli articoli 525, 551 e 564 cod. proc. civ.
Scendendo, invece, nel dettaglio degli effetti dell’intervento, occorre ricordare come l’art. 500 c.p.c. non faccia riferimento esplicito all’art. 499 cpc. nella suddivisione delle conseguenze per l’interventore tardivo e per quello tempestivo: “[…] non [sussiste] alcuna differenziazione tra le categorie dei creditori titolati e non titolati, la qual cosa ne accredita, in via interpretativa, la portata di norme generali […]. Il deposito del ricorso oltre il termine fissato comporta infatti la postergazione in sede distributiva dell’interventore tardivo (con riguardo, peraltro, ai soli creditori chirografari, per avere comunque il legislatore garantito la soddisfazione prioritaria dei crediti assistiti da causa legittima di prelazione riconosciuta dal diritto sostanziale) e non incide sull’ammissibilità stessa dell’intervento, per la quale il codice stabilisce una soglia molto più spostata in avanti e correlata, in definitiva, al momento terminale della procedura (gli interventi sono infatti praticabili: nelle procedure mobiliari e presso terzi, sino all’emissione del provvedimento di distribuzione; nelle esecuzioni immobiliari, sino all’udienza fissata per la discussione sul progetto di distribuzione) […]”.
Ancora, appare evidente la sussistenza di una legittima possibilità, per i creditori sprovvisti di titolo esecutivo ed intervenuti oltre la prima udienza fissata per l’autorizzazione alla vendita o per l’assegnazione, di concorrere alla distribuzione della somma ricavata dalla esecuzione ([…] qui il richiamo è, in primis, nella espropriazione immobiliare, all’art. 566 cod. proc. civ. (“I creditori iscritti e privilegiati che intervengono oltre l’udienza indicata nell’art. 564, ma prima di quella prevista nell’art. 596, concorrono alla distribuzione della somma ricavata in ragione dei loro diritti di prelazione e, quando sono muniti di titolo esecutivo, possono provocare atti della espropriazione”) ma anche, nell’esecuzione mobiliare, all’art. 526 cod. proc. civ. (“I creditori intervenuti a norma dell’articolo 525 partecipano alla espropriazione dei mobili pignorati e, se muniti di titolo esecutivo, possono provocarne i singoli atti”) e all’art. 528, secondo comma, cod. proc. civ. (“I creditori che hanno un diritto di prelazione sulle cose pignorate, anche se intervengono a norma del comma precedente [cioè tardivamente], concorrono alla distribuzione della somma ricavata in ragione dei loro diritti di prelazione”[…]”).
L’insieme delle disposizioni citate rende evidente l’insussistenza della sanzione della inammissibilità in ipotesi di intervento tardivo. Una siffatta “sanzione”, finirebbe con l’introdurre una ingiustificata ed ulteriore diseguaglianza di trattamento tra creditori titolati e non titolati (costringendo questi ultimi al deposito del ricorso in un momento notevolmente più anticipato rispetto alla fase distributiva). Inoltre, finirebbe “[…] con il collegare all’inerzia processuale del creditore una gravosa conseguenza di natura sostanziale, e cioè a dire il venir meno del diritto reale di garanzia o del privilegio, poiché il creditore privilegiato intervenuto oltre il termine previsto dall’art. 499, secondo comma, cod. proc. civ., vedrebbe irrimediabilmente compromessa la realizzazione del proprio diritto (salvo il caso in cui riesca a munirsi di un titolo esecutivo prima della distribuzione del ricavato) per l’estinzione della causa legittima di prelazione derivante dall’effetto purgativo della vendita forzata, in contrasto con la salvaguardia dei crediti privilegiati che il codice di rito assicura in maniera prioritaria ed indifferente rispetto al momento di esercizio dell’azione esecutiva ad opera del privilegiato […]”. La conseguenza ultima di tale ragionamento è la restituzione, all’istituto dell’intervento non titolato, della sua utilità deflattiva.
La Corte, con una ricostruzione degna di menzione, vista la sua fruibilità e chiarezza, ha colto l’occasione per ricordare che: “[…] L’intero sistema dell’intervento non titolato, che consiste in un esonero di particolari categorie di creditori dalle preventive condizioni di intervento consistenti nel conseguimento e nella produzione di un titolo esecutivo che riconosca il loro credito, è articolato in due subprocedimenti o fasi:
 – una prima, in cui alla carenza di titolo si sopperisce con la ficta confessio del debitore, cui è offerta, a controbilanciare il privilegio concesso al creditore di intervenire senza titolo, la possibilità di paralizzare – in senso tecnico, cioè di sterilizzare o impedirne gli effetti – l’intervento mediante la semplice condotta di positivo disconoscimento;
una seconda, cui il creditore accede in dipendenza dell’esito dell’esercizio di tale facoltà concessa al debitore; e che, se la condotta è di riconoscimento anche tacito, comporta l’equiparazione ad un intervento titolato, mentre, in caso contrario, implica un ulteriore e duplice onere del creditore disconosciuto, cioè quello di instare per l’accantonamento delle somme che potrebbero loro spettare se conseguissero il titolo e, soprattutto, quello di proporre, nei trenta giorni successivi al disconoscimento, l’azione per conseguire un valido titolo esecutivo.
Al di fuori di questo sistema, l’intervento è radicalmente escluso, non essendo ammesso, se non titolato, fuori dei casi e delle procedure espressamente previste appunto dagli artt. 499 e 500 cod. proc. civ., con potestà del giudice dell’esecuzione di rilevare anche di ufficio la carenza di tali presupposti (Cass. 9 aprile 2015, n. 7107) […]”. 
Dunque, “[…] l’attivazione del subprocedimento di verifica regolato dall’art. 499, quinto e sesto comma, cod. proc. civ. consente, quindi, di potersi giovare, in caso di riconoscimento (anche tacito) da parte del debitore, dell’ammissione diretta alla seconda fase, cioè quella di distribuzione del ricavato alla stregua dei creditori titolati: si realizza, in tal modo, un meccanismo che surroga de plano (ovvero senza la necessità per l’interventore non titolato di introdurre un autonomo giudizio di cognizione) l’esistenza ab initio del titolo esecutivo, seppure con efficacia limitata al procedimento in corso. […]”.
Ancora, la Corte, con cristalline parole, chiarisce che: “[…]l’intervento non titolato spiegato alla (nonché, ovviamente ed a maggior ragione, oltre la) udienza in cui è disposta la vendita produc[e] un effetto processuale di minore portata rispetto all’accesso immediato – e paritario – al riparto: quest’ultimo è e resta condizionato o alla sussistenza di un titolo o al conseguimento, da parte del creditore, di quel suo specifico surrogato consistente nel riconoscimento (anche tacito) del credito non titolato conseguente alla condotta del debitore. […I]l creditore senza titolo intervenuto tardivamente, benché pur sempre nell’ambito delle previsioni dell’art. 499 cod. proc. civ. (e dovendosi quindi escludere la ritualità di un intervento anche al di fuori delle ipotesi in cui quello è ammesso eccezionalmente senza titolo), deve intendersi – per volontaria (quand’anche indotta, talora, dall’incombenza dei tempi della procedura) sua scelta dei tempi – ab origine disconosciuto, equiparato cioè quoad effectum all’interventore non titolato per il quale non si sia perfezionato il riconoscimento (per effetto di contestazione del debitore o anche per un vizio procedurale, quale l’omessa notifica del provvedimento di fissazione dell’udienza) ed avente quindi diritto all’accantonamento delle somme a lui spettanti, ma pur sempre in forme, tempi e condizioni ulteriormente specificati dalla normativa […]”.
Sotto il profilo dell’accantonamento delle somme, la Corte spiega (magistralmente) che: “[…] È decisivo rammentare, al riguardo, che nell’ordito codicistico disegnato dall’art. 499 cod. proc. civ., l’accantonamento delle somme in favore dell’intervenuto non titolato risulta espressamente subordinato ad  una duplice condizione: in primis, la presentazione di una specifica istanza in tal senso da parte del creditore; in secondo luogo, la prova  fornita dal creditore intervenuto di aver proposto, nei trenta giorni successivi alla udienza di verifica, l’azione per munirsi di titolo esecutivo, ovvero di avere intrapreso un giudizio (seppure a cognizione sommaria, quale, ad esempio, il procedimento monitorio) […]”.
Sotto il profilo delle conseguenze del mancato riconoscimento del credito, la Corte ha, altresì, così argomentato: “[…] Ora, mancato – nel caso dell’intervento tardivo, per la vista scelta volontaria del creditore – il riconoscimento del debitore esecutato avente efficacia surrogatoria del titolo esecutivo, si rende allora comunque necessario, affinché l’interventore non titolato possa beneficiare quanto meno dell’accantonamento prodromico alla distribuzione del ricavato, l’accertamento del credito fatto valere in via di intervento da compiersi, tuttavia, con le modalità ordinarie, cioè al di fuori dall’ambito del procedimento esecutivo: allo scopo, il legislatore impone all’interventore non titolato di promuovere l’azione finalizzata alla formazione di un titolo esecutivo entro trenta giorni dal realizzarsi (con l’udienza di verifica) del disconoscimento, dandone prova al giudice dell’esecuzione […]”.
Alla luce della analisi dei principali passaggi argomentativi e motivazionali, si riporta, per concludere, il principio di diritto espresso dalla Corte: l’intervento di chi vanta un credito privilegiato e si trova in una delle condizioni previste dal primo comma dell’art. 499 cod. proc. civ., il quale abbia luogo tardivamente rispetto ai termini fissati dal secondo comma del medesimo art. 499 cod. proc. civ. […] preclude l’attivazione del subprocedimento di verificazione previsto da quella norma e comporta che il credito si abbia per disconosciuto, ma non rende inammissibile l’intervento, prevalendo la disciplina dell’art. 551 […]”. 

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