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Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato la condanna inflitta dal Tribunale ad un uomo in relazione al reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, per avere alienato un immobile, ereditato dal padre, a un prezzo molto inferiore al suo valore commerciale, al fine di sottrarsi all’adempimento degli obblighi derivanti dalla sentenza che gli aveva imposto il risarcimento del danno nei confronti di altro soggetto, la Corte di Cassazione penale, Sez. VI, con la sentenza 16 aprile 2024, n. 15659 – nel disattendere la tesi difensiva secondo cui la sentenza aveva erroneamente ravvisato gli elementi costitutivi del reato nonostante che i provvedimenti del giudice, ritenuti come rimasti ineseguiti, non fossero stati emessi a carico dell’imputato, ma di suo padre – ha affermato che integra il reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, a norma dell’art. 388, c.p., la condotta consistente nel vendere un immobile al di sotto del suo valore commerciale, ove ciò sia assistito dall’intento fraudolento di sottrarlo alla possibile esecuzione di una sentenza definitiva di condanna al risarcimento del danno, non rilevando che l’immobile fosse pervenuto iure hereditatis al reo.

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

Conformi

Non si rinvengono precedenti

Difformi

Non si rinvengono precedenti

Prima di soffermarci sulla pronuncia resa dalla Suprema Corte, deve essere ricordato che l’art. 388, c.p., sotto la rubrica «Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice» punisce con la reclusione fino a tre anni o con la multa da euro 103 a euro 1.032 la condotta di chiunque, per sottrarsi all’adempimento degli obblighi nascenti da un provvedimento dell’autorità giudiziaria, o dei quali è in corso l’accertamento dinanzi all’autorità giudiziaria stessa, compie, sui propri o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti, o commette allo stesso scopo altri fatti fraudolenti, qualora non ottemperi all’ingiunzione di eseguire il provvedimento.

La stessa pena si applica a chi elude l’esecuzione di un provvedimento del giudice civile, ovvero amministrativo o contabile, che concerna l’affidamento di minori o di altre persone incapaci, ovvero prescriva misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito.

La stessa pena si applica a chi elude l’esecuzione di un provvedimento del giudice che prescriva misure inibitorie o correttive a tutela dei diritti di proprietà industriale.

È altresì punito con la pena prevista al primo comma chiunque, essendo obbligato alla riservatezza per espresso provvedimento adottato dal giudice nei procedimenti che riguardino diritti di proprietà industriale, viola il relativo ordine.

La norma prosegue (comma 5), stabilendo la pena della reclusione fino a un anno e della multa fino a euro 309 nei confronti di chiunque sottrae, sopprime, distrugge, disperde o deteriora una cosa di sua proprietà sottoposta a pignoramento ovvero a sequestro giudiziario o conservativo.

Si applicano la reclusione da due mesi a due anni e la multa da euro 30 a euro 309 se il fatto è commesso dal proprietario su una cosa affidata alla sua custodia, e la reclusione da quattro mesi a tre anni e la multa da euro 51 a euro 516 se il fatto è commesso dal custode al solo scopo di favorire il proprietario della cosa.

Il custode di una cosa sottoposta a pignoramento ovvero a sequestro giudiziario o conservativo che indebitamente rifiuta, omette o ritarda un atto dell’ufficio è invece punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a euro 516.

La pena di cui sopra si applica al debitore o all’amministratore, direttore generale o liquidatore della società debitrice che, invitato dall’ufficiale giudiziario a indicare le cose o i crediti pignorabili, omette di rispondere nel termine di quindici giorni o effettua una falsa dichiarazione. Il colpevole è punito a querela della persona offesa.

Nell’ipotesi prevista dal comma 1, qui rilevante, la condotta consiste nel compimento di atti simulati oppure di atti o fatti fraudolenti per sottrarsi all’adempimento degli obblighi nascenti da provvedimento dell’autorità giudiziaria, o dei quali è in corso l’accertamento dinanzi l’Autorità giudiziaria stessa, qualora non si ottemperi alla ingiunzione di eseguire la sentenza.

In giurisprudenza si era affermato che con l’espressione “sentenza di condanna“, la legge avesse inteso comprendere tutti i provvedimenti che, a prescindere dalla loro denominazione o forma, rivestono la natura di decisioni giudiziarie con imposizione di obblighi di carattere civilistico; pertanto, integrava il reato di cui all’art. 388, comma 1, la condotta del coniuge che, attraverso la sostituzione della serratura della casa coniugale, si sottraesse al provvedimento con il quale il presidente del tribunale, nel corso della causa di separazione, assegnava la casa in uso esclusivo all’altro coniuge (Cass. pen., Sez. VI, 17/11/1999), oppure attribuiva un assegno alimentare a favore della moglie e dei figli dell’obbligato (Cass. pen., Sez. III, 12/11/1973).

In tal senso, si era anche sostenuto che il provvedimento del giudice potesse essere costituito, oltre che da una sentenza di condanna, anche da un’ordinanza che sanciva l’adempimento di obblighi civili di cui era in corso l’accertamento davanti all’autorità giudiziaria (Cass. pen., Sez. VI, 24/9/1993). Successivamente Cass. pen., Sez. VI, 17/4/2019, n. 16857, chiarendo che ai fini della configurabilità del delitto non è sufficiente il compimento di atti finalizzati a sottrarsi agli adempimenti, ma è necessario il compimento di atti simulati o fraudolenti, ha ritenuto integrato il delitto per un soggetto che, per sottrarsi agli obblighi derivanti da una sentenza che lo condannava a versare alcune somme a favore dell’ex coniuge e dal successivo pignoramento immobiliare, stipulava un contratto di compravendita avente ad oggetto i medesimi immobili (in termini simili, Cass. pen., Sez. VI, 22/11/2023, n. 46991).

In giurisprudenza si è affermato che presupposto del reato di cui all’art. 388 è che un provvedimento immediatamente esecutivo sia stato emesso dal giudice e che l’avente diritto abbia fatto ciò che occorre per l’esecuzione coattiva del provvedimento stesso. È, inoltre, necessario che il provvedimento sia tuttora eseguibile: perché, se il provvedimento già sia stato definitivamente eseguito, il reato non può essere concretato da fatti successivi ad esso contrari, a meno che il provvedimento stesso abbia carattere continuativo (Cass. pen., Sez. III, 19/5/1967).

Si era precisato che per sentenza di condanna, ai sensi dell’art. 388, comma 1, pur interpretando tale espressione nella generale accezione di qualunque provvedimento emesso in sede giurisdizionale, dovesse intendersi una decisione di merito pronunciata in base ad una plena cognitio. Non può, invece, farsi rientrare in tale locuzione una decisione provvisoria applicativa semplicemente di una misura cautelare, tanto più che l’elusione dell’esecuzione di un tale provvedimento è prevista espressamente come elemento costitutivo di altra fattispecie criminosa, quella di cui all’art. 388, comma 2 (Cass. pen., Sez. VI, 19/3/1997). La sentenza di condanna (ed oggi il provvedimento dell’autorità giudiziaria) deve essere suscettibile di esecuzione forzata.

In proposito, parte della dottrina riteneva che la sentenza dovesse appunto essere di condanna (Alessandri, Il problema delle misure coercitive e l’art. 388 cpv. c.p., in RIDPP, 1981, 167), mentre altra dottrina reputava sufficiente la presenza di una sentenza di accertamento o costitutiva. Analogamente, vi è contrasto sulla possibilità che l’art. 388 si estenda a tutelare le obbligazioni ad un facere infungibile, a non facere o di pati.

Tanto premesso, nel caso in esame, la Corte d’appello aveva confermato la condanna inflitta dal Tribunale, exart. 388 c.p., ad un imputato per avere alienato un immobile, a un prezzo molto inferiore al suo valore commerciale, al fine di sottrarsi all’adempimento degli obblighi derivanti dalla sentenza che gli aveva imposto il risarcimento di un danno nei confronti di altro soggetto.

Ricorrendo in cassazione, la difesa ne sosteneva l’erroneità, in particolare perché la sentenza d’appello aveva ravvisato gli elementi costitutivi del reato exart. 388, comma 1, c.p. nonostante che i provvedimenti del giudice – che ha ritenuto essere rimasti ineseguiti dal reo – non fossero stati emessi a carico dell’imputato, ma di suo padre. Inoltre, si osservava che la condanna dell’imputato sarebbe stata pronunciata per la violazione di un obbligo nascente da un provvedimento – la declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione avverso una sentenza della Corte di appello – distinto da quelli indicati nel capo di imputazione e costituiti dalle due sentenze emesse nei confronti del padre.

La Cassazione, nel disattendere la tesi difensiva, ha affermato il principio di cui sopra. In particolare, la S.C. ha ritenuto che correttamente la Corte di appello aveva valutato che gli obblighi a carico dell’imputato erano sempre quelli nascenti dai provvedimenti del giudice civile prima a carico del padre deceduto e, successivamente, ora a carico dell’imputato, unico erede del padre, avendo la sorella rinunciato all’eredità, che era subentrato nella posizione processuale del padre (ex art. 110 c.p.c.) anche indipendentemente dal fatto di avere fatto presentato ricorso (dichiarato inammissibile) per cassazione. In questo quadro, dunque, secondo la Cassazione, la Corte di appello aveva ritenuto correttamente il carattere fraudolento dell’operazione di vendita, evidenziando che la vendita era stata effettuata dopo la conferma della condanna e che il prezzo risultava molto più basso del valore di mercato del terreno.

Da qui, pertanto, il rigetto del ricorso.

Riferimenti normativi

Art. 388 c.p.

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