Il fatto processuale
Il GIP, in qualità di giudice dell’esecuzione, rigetta l’opposizione della difesa avverso l’ordinanza con la quale è stata in precedenza respinta la richiesta di estinzione del reato patteggiato, “per aver avere l’imputato nei cinque anni successivi alla data di irrevocabilità della sentenza [di patteggiamento] commesso altro delitto, ancorché estinto per esito positivo della messa alla prova”.
In particolare, l’argomentazione della decisione si sviluppa in due passaggi consecutivi. In prima battuta, si fa riferimento a quella “giurisprudenza secondo cui è preclusa la dichiarazione di estinzione del reato oggetto di una sentenza di patteggiamento se nel termine di cinque anni l’autore di quel reato commette un nuovo delitto, pur se questo è stato oggetto di altra sentenza di patteggiamento ed è stato dichiarato estinto per non avere l’interessato commesso altro reato nei successivi cinque anni”. In seconda battuta, si equipara l’estinzione del reato mappato all’estinzione del reato patteggiato (ritenendo analoghi gli accertamenti posti alla base delle decisioni relative all’ammissibilità, o meno, delle due procedure: quella ex artt. 444 ss. c.p.p. e quella exartt. 464-bis ss. c.p.p.) e si afferma che vale in entrambi i casi la previsione ostativa di cui all’art. 445, comma 2 c.p.p.
In sostanza, se si commette un ulteriore fatto delittuoso entro cinque anni dalla sentenza irrevocabile di patteggiamento, non si ha estinzione del (vecchio) reato patteggiato perché il limite di cui all’art. 445, co. 2 c.p.p. continua a operare nonostante il nuovo delitto commesso venga a estinguersi per essere stato patteggiato o mappato positivamente.
La doglianza difensiva
La difesa, con i primi due motivi di impugnazione, deduce vizio di motivazione (art. 606, comma 1, lett. e c.p.p.) e violazione di legge penale sostanziale (art. 606, comma 1, lett. b c.p.p.), in rapporto al combinato disposto di cui agli artt. 168-bis, comma 1 c.p. – 168-ter , comma 1 c.p. – 464-septies , comma 1 c.p.p. – 445, comma 2 c.p.p., per avere il giudice dell’esecuzione erroneamente equiparato la declaratoria di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova alla declaratoria estintiva relativa al reato oggetto di applicazione della pena su richiesta delle parti.
Errato, invero, è secondo la difesa il ragionamento giudiziale per cui la prima declaratoria, “al pari della seconda, comporta l’accertamento della commissione di un reato”. Una simile ricostruzione – questa è la doglianza difensiva – si pone “in contrasto con le precisazioni della Corte costituzionale sull’istituto della messa alla prova circa l’assenza di un’attribuzione di colpevolezza e sull’accesso con essa, in difetto di un formale accertamento di responsabilità, a un trattamento alternativo alla pena che sarebbe stata inflitta nel caso di un’eventuale condanna”.
Col terzo e col quarto motivo di ricorso, si denunciano vizio di motivazione (art. 606, comma 1, lett. e c.p.p.) e violazione di legge penale processuale (art. 606, comma 1 lett. c c.p.p.), in quanto “il delitto di cui alla seconda sentenza è in realtà anteriore a quello della prima sentenza […] sicché non ricorre comunque il presupposto – richiesto dall’art. 445, comma 2 c.p.p. – della commissione di un [altro] delitto nel termine di cinque anni”.
La decisione della Cassazione
La Suprema Corte bolla come manifestamente infondato “l’assunto difensivo, di cui al terzo e al quarto motivo di impugnazione, sulla data di commissione della successiva [fattispecie criminosa: ossia, la] bancarotta”, rilevando che – per giurisprudenza consolidata – “il momento consumativo dei reati fallimentari coincide con la data di dichiarazione del fallimento della società”. In quest’ottica, pertanto, il fatto-reato oggetto di messa alla prova non può considerarsi commesso precedentemente al fatto-reato oggetto di patteggiamento.
Viceversa, la Cassazione riconosce la fondatezza dei primi due motivi di ricorso. Richiamando “la ricostruzione esegetica dell’istituto della messa alla prova operata dalla giurisprudenza delle Sezioni unite (Cass. pen. sez. Unite, 31/03/2016, n. 33216, Rigacci; Cass. pen. sez. Unite 31/03/2016, n. 36272, Sorcinelli) e della Corte costituzionale (sentt. Corte cost. n. 91/2018 e Corte cost. n. 218/2018)”, i giudici di legittimità affermano che “la sentenza che definisce il procedimento con declaratoria di estinzione del reato per l’esito positivo della messa alla prova non comporta l’accertamento della commissione di un reato”.
Le similitudini tra m.a.p. e patteggiamento, tuttavia, si esauriscono nell’assimilazione “per la base consensuale del procedimento e del conseguente trattamento”, essendo poi tali le differenze “da non consentire un riferimento nei termini tradizionali alle categorie costituzionali penali e processuali” tra i due istituti.
Anzitutto, “il carattere innovativo della messa alla prova segna un ribaltamento dei tradizionali sistemi di intervento sanzionatorio”, realizzando in tal senso “una rinuncia statuale alla potestà punitiva condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata e assistita” (che resta pur sempre, è bene ricordare, nella disponibilità del ‘soggetto in prova’). Questa “figura giuridica”, da un lato, “si connota, sotto il profilo processuale, come procedimento speciale alternativo al giudizio e, [dall’altro lato,] sotto il profilo sostanziale, come una causa di estinzione del reato, perseguendo scopi special-preventivi in una fase anticipata, in cui viene infranta la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto”.
Inoltre, mentre “la sentenza che dispone l’applicazione della pena su richiesta delle parti, pur non potendo essere pienamente identificata con una vera e propria sentenza di condanna (cfr. Corte cost., sent. n. 251/1991), è tuttavia a questa equiparata ex art. 445 c.p.p. (Corte cost., ord. n. 73/1993) e conduce all’irrogazione della pena prevista per il reato contestato, anche se diminuita fino a un terzo”, al contrario, “l’esito positivo della prova conduce a una sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato; con la conseguenza che la sentenza di patteggiamento costituisce un titolo esecutivo per l’applicazione di una sanzione tipicamente penale, mentre l’ordinanza che dispone la sospensione del processo e ammette l’imputato alla prova non costituisce un titolo per dare esecuzione alle relative prescrizioni, perché il trattamento programmato non è una sanzione penale, eseguibile coattivamente, ma dà luogo a un’attività rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell’imputato, il quale liberamente può farla cessare determinando la ripresa del corso del processo sospeso”.
Infine, gli Ermellini tornano sul profilo accertativo della m.a.p. e ribadiscono che, “pur non mancando nella messa alla prova – in via incidentale e allo stato degli atti (essendo l’accertamento definitivo rimesso all’eventuale prosieguo di giudizio nel caso di esito negativo della prova) – una considerazione della responsabilità dell’imputato (posto che il giudice, in base all’art. 464-bis c.p.p., deve verificare che non ricorrano le condizioni per pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129 c.p.p.; e anche a tale scopo può esaminare gli atti del fascicolo del pubblico ministero, valutare la richiesta dell’imputato, eventualmente disponendone la comparizione ex art. 464-quater, comma 2 c.p.p. e, se lo ritiene necessario, acquisire ulteriori informazioni in applicazione dell’art. 464-bis, comma 5 c.p.p.), non può dirsi che la sentenza emessa ai sensi dell’art. 464-septies c.p.p. sia equiparabile a quella emessa in sede di applicazione della pena su richiesta delle parti e [che] comporti l’accertamento della commissione di un reato”.
Rimarcata dunque la differenza giuridico-strutturale tra la messa alla prova e il patteggiamento, la Suprema Corte non può condividere – e difatti non condivide – le conclusioni raggiunte dal giudice dell’esecuzione, poiché basate su di una impostazione ricostruttiva scorretta (i.e. l’equiparazione tra la sentenza che applica la pena su richiesta e l’ordinanza che ammette alla prova, nonché l’assimilazione tra il provvedimento estintivo del reato patteggiato e quello che estingue il reato mappato). Cade così, in relazione al delitto estintosi per esito positivo della m.a.p., il presupposto stabilito dall’art. 445, comma 2, c.p.p., che impedisce l’estinzione del reato patteggiato per essere stato commesso un altro delitto nei cinque anni successivi alla sentenza di patteggiamento divenuta irrevocabile.
In breve, dalla pronuncia Cass. sez. I, 21 giugno 2022, n. 23920, G.M. si ricava che il reato mappato non costituisce un reato ai sensi e nei termini di cui all’art. 445, comma 2 c.p.p.
Esito del ricorso:
Annullamento dell’ordinanza impugnata, con rinvio per nuovo giudizio al GIP
Riferimenti normativi:
Art. 168-bis c.p.
Art. 168-ter c.p.
Art. 129 c.p.p.
Art. 444 c.p.p.
Art. 445 c.p.p.
Art. 464-bis c.p.p.
Art. art. 464-quater c.p.p.
Art. 464-septies c.p.p.
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