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Ricorre l’ipotesi di cd. bancarotta riparata allorquando l’amministratore, una volta che si sia reso responsabile delle condotte distrattive, annulli l’operazione con una condotta di segno opposto che elimini così ogni pregiudizio per i creditori, sempre che i versamenti nelle casse sociali siano posti in essere dopo le distrazioni ed allo scopo di rimediare al pregiudizio arrecato da quest’ultime- In questo modo si è espressa la Cassazione penale con la sentenza n. 26240/2023.

Orientamenti giurisprudenziali

Conformi:

Cass. pen. sez. V, 28 febbraio 2023, n. 14932

Cass. pen. sez. V, 21 giugno 2021, n. 32930

Cass. pen. sez. V, 17 gennaio 2020, n. 17228

Cass. pen. sez. V, 1 febbraio 2018, n. 8431

Cass. pen. sez. V, 24 novembre 2017, n. 57759

Difformi:

Non si rinvengono precedenti in termini

Interessante decisione della Cassazione che esamina tre profili del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale ed in particolare la distinzione fra l’ipotesi di prelievo di somme a titolo di restituzione dei versamenti operati dai soci in conto capitale o a titolo di restituzioni di versamenti operati a titolo di mutuo, la ragionevolezza e la ratio del principio in base al quale l’imprenditore deve giustificare la sorte dei beni e delle somme mancanti rispetto all’originario patrimonio sociale ed infine in ordine ai presupposti perché possa parlarsi di “bancarotta riparata”

Il fatto

In sede di merito, la Corte di Appello di Torino confermava la condanna dell’amministratore di una società per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, avendo lo stesso posto in essere ingiustificati prelievi di denaro contante dalla cassa societaria e per aver effettuato restituzioni di finanziamenti a favore proprio e della moglie, entrambi soci della fallita.

In sede di ricordo per cassazione, la difesa sosteneva che i giudici di merito avrebbero disatteso i più recenti arresti della giurisprudenza di legittimità secondo i quali, a fronte di operazioni con cui, in epoca di evidente dissesto societario, si restituiscano ai soci i finanziamenti effettuati, il delitto di bancarotta fraudolenta si realizzerebbe solo ove le restituzioni si riferissero a precedenti conferimenti in conto capitale e non, come nel caso di specie, a prestiti di altra natura in relazione ai quali potrebbe esclusivamente ravvisarsi la diversa ipotesi di bancarotta preferenziale, a nulla rilevando che destinatario di tale reso sia lo stesso amministratore della società.

In secondo luogo, si contesta la ritenuta natura distrattiva dei prelievi di denaro contante effettuati dall’imputato in ragione dell’incapacità dello stesso di giustificarne puntualmente la destinazione. A detta del ricorrente, infatti, non sarebbe possibile attribuire a suddetta situazione di incertezza il ruolo di prova certa ed invincibile della distrazione, pena un’indebita inversione dell’onere probatorio; al contrario, accordata alla circostanza la mera natura di indizio, nel caso di specie la stessa non solo non sarebbe stata corroborata da altri elementi di pari segno, ma anzi verrebbe contraddetta dal fatto che, a fronte della contestata distrazione, lo stesso amministratore avrebbe invece contestualmente finanziato la società per un simile importo, nonché rinunciato alla restituzione di somme già versare per un ammontare ben superiore. In definitiva, secondo la prospettazione del ricorrente, la Corte d’appello non sarebbe stata in grado di smentire la tesi dell’imputato secondo la quale anche i prelievi privi di specifico riscontro sarebbero comunque stati finalizzati a coprire i costi aziendali.

Infine, si contestava che i giudici di merito non avevano rinvenuto un’ipotesi di bancarotta riparata, individuata dal ricorrente nella circostanza per cui, a fronte di conferimenti da parte dei soci per oltre 300.000 euro, questi avrebbero ottenuto in restituzione la somma inferiore di poco più di 225.000 euro. In questo senso, del tutto illogica sarebbe la posizione assunta dalla Corte adita, secondo cui la figura invocata non potrebbe operare a causa della posteriorità delle distrazioni rispetto ai conferimenti, dovendosi invero esclusivamente tenere conto, per poter parlare di bancarotta riparata, del saldo tra il preso e il versato al momento della dichiarazione giudiziale di fallimento.

La decisione

La Cassazione ha rigettato il ricorso.

Quanto al primo motivo, la Cassazione concorda con le considerazioni della difesa in ordine all’insostenibilità della tesi propugnata dalla Corte territoriale per cui, in caso di identificazione del socio destinatario della restituzione dei finanziamenti con l’amministratore della fallita, si configurerebbe automaticamente la fattispecie di bancarotta fraudolenta distrattiva a prescindere dalla qualificazione dei crediti preferiti in termini di versamenti in conto capitale o di prestiti effettuati alla società. Tale principio, pure affermato in passato da alcune pronunzie, è stato oramai abbandonato dalla giurisprudenza di legittimità, in quanto comporta l’irragionevole prevalenza del criterio soggettivo riferito alla qualifica assunta dal creditore all’interno della società su quello che, al contrario, va individuato quale unico criterio di distinguo nella individuazione della fattispecie incriminatrice applicabile, ossia la causale del credito soddisfatto attraverso il prelievo di somme da parte di colui che ricopre la carica gestoria. Va infatti ribadito che solo il prelievo di somme di denaro a titolo di restituzione dei versamenti operati dai soci in conto capitale costituisce effettivamente una distrazione ed integra, pertanto, la fattispecie della bancarotta fraudolenta patrimoniale, non rappresentando tali versamenti un credito esigibile nel corso della vita della società, mentre la restituzione di quelli operati dai soci a titolo di mutuo è punibile a titolo di bancarotta preferenziale, a prescindere dalla qualifica rivestita dal destinatario delle restituzioni all’interno della società (Cass., sez. V, 21 giugno 2021, n. 32930; Cass., sez. V, 1 febbraio 2018, n. 8431).

Tuttavia, il motivo è giudicato inammissibile stante la già intervenuta condanna dell’imputato al minimo della pena comminabile per cui nessun effetto favorevole deriverebbe all’imputato dalla riqualificazione del fatto sotto il titolo del meno grave reato di bancarotta preferenziale. Lo stesso dicasi in relazione alle conseguenze dell’accoglimento in relazione ad un’eventuale valutazione del fatto in sede civile in quanto, data la pacifica natura illecita della condotta a prescindere dalla sua esatta – e comunque, come subito si dirà, solo parziale – qualificazione giuridica in termini di bancarotta fraudolenta distrattiva o preferenziale, la decisione non influirebbe in alcun modo su un eventuale giudizio civile di risarcimento del danno.

Il secondo motivo di ricorso è infondato ove prospetta un’indebita inversione dell’onere della prova di fronte alla richiesta, indirizzata all’amministratore, di dare ragione del mancato rinvenimento di beni sociali, pena la presunzione relativa di distrazione degli stessi.

La giurisprudenza è tetragona nel sostenere che la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, ad opera dell’amministratore, della destinazione dei beni a seguito del loro mancato rinvenimento (Cass., sez. V, 17 gennaio 2020, n. 17228). La sentenza in esame ricostruisce la ratio di questa impostazione evidenziando come l’imprenditore è posto dal nostro ordinamento in una posizione di garanzia nei confronti dei creditori, i quali ripongono la garanzia dell’adempimento delle obbligazioni dell’impresa sul patrimonio di quest’ultima; da qui deriva la diretta responsabilità del gestore di questa ricchezza per la sua conservazione in ragione dell’integrità della garanzia e la perdita ingiustificata del patrimonio o l’elisione della sua consistenza danneggia le aspettative della massa creditoria ed integra l’evento giuridico sotteso dalla fattispecie di bancarotta fraudolenta. In secondo luogo, la legge assegna al fallito obbligo di verità circa la destinazione dei beni di impresa al momento dell’interpello formulato dal curatore al riguardo, con espresso richiamo alla sanzione penale ed è evidente che le condotte descritte all’art. 216, comma 1, n. 1 R.D. n. 267 del 1942 (oggi art. 322 d.lgs. n. 14 del 2014 hanno diretto riferimento alla condotta infedele o sleale del fallito nel contesto dell’interpello.

Sulla scorta di queste considerazioni, la (apparente) inversione dell’onere della prova ascritta al fallito nel caso di mancato rinvenimento di cespiti da parte della procedura e di assenza di giustificazione al proposito (o di giustificazione resa in termini di spese, perdite ed oneri attinenti o compatibili con le fisiologiche regole di gestione) diventa pienamente giustificata e ragionevole. Si tratta, infatti, di una sollecitazione al diretto interessato della dimostrazione della concreta destinazione dei beni o del loro ricavato, risposta che (presumibilmente) soltanto egli, che è (oltre che il responsabile) l’artefice della gestione, può rendere.

Manifestamente infondato è infine ritenuto il terzo motivo, con il quale si invocava l’applicazione dell’istituto della c.d. “bancarotta riparata” in ragione di una asserita reintegrazione del patrimonio sociale avvenuta in epoca antecedente rispetto al momento nel quale sarebbero state poste in essere le contestate distrazioni. Secondo la Cassazione, questa tesi non può essere condivisa in quanto comporterebbe una indebita inversione dell’ordine logico-temporale dei requisiti fondamentali alla base dell’operatività della fattispecie stessa. Invero, come da costante giurisprudenza sul tema, la fattispecie di cui si discute si fonda sul presupposto per cui l’amministratore, una volta che si sia reso responsabile delle condotte distrattive, annulli l’operazione con una condotta di segno opposto che elimini così ogni pregiudizio per i creditori (Cass., sez. V, 24 novembre 2017, n. 57759); al contrario, nel caso in esame, a configurarsi sarebbe al più la diversa ipotesi di una bancarotta “bilanciata”, nella quale insomma gli apporti posti in essere dall’amministratore e le distrazioni si compenserebbero gli uni con le altre, senza che però tra questi si crei un rapporto di stretta dipendenza tale per cui i primi esistono solo in funzione dell’ottica di riparazione al danno arrecato con le prime.

Peraltro, la Cassazione evidenzia come, nel caso di specie, vi fosse comunque una disparità esistente tra i conferimenti eseguiti dall’imputato nei confronti della società e le restituzioni dallo stesso effettuate, essendo infatti stato verificato che queste ultime, differentemente da quanto sostiene il ricorrente, superano i versamenti per un importo di più di 50.000 euro mentre, per poter parlare di “bancarotta riparata” occorre che i versamenti nelle casse sociali, compiuti prima del fallimento onde reintegrare il patrimonio precedentemente pregiudicato, corrispondano esattamente agli atti distrattivi in precedenza perpetrati (Cass., sez. V, 28 febbraio 2023, n. 14932), circostanza non ravvisabile nel caso di specie.

Esito del ricorso:

Rigetto del ricorso

Riferimenti normativi:

Art. 216, comma 1 n. 1, Regio Decreto n. 267 del 1942

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