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Sono passati esattamente ottanta anni dal 16 giugno 1944, eppure leggere questa storia desta ancora sconcerto, commozione e rabbia.

Siamo a Genova, il secondo conflitto mondiale volge al termine, il nazifascismo si appresta a essere sconfitto, ma i suoi colpi di coda producono ancora terrore e morte. Su richiesta tedesca, i fascisti della Repubblica Sociale italiana si mettono come sempre al loro servizio: stavolta l’obiettivo sono le fabbriche della città, gli operai che ci lavorano dentro.

Questo perché nei giorni precedenti quegli stessi operai si sono schierati contro il regime, in particolare il grande polo metalmeccanico e cantieristico del genovese, che blocca la produzione paralizzando per un paio di settimane un settore fondamentale, strategico per chi vuole continuare una guerra ormai perduta. Ma c’è dell’altro, c’è anche la richiesta di manodopera in Germania per alimentare l’industria del Reich, e deve essere manodopera qualificata, di prima scelta. I nazisti comandano, i fascisti eseguono.

Si snoda attraverso l’intreccio di questa vicenda, forse non conosciuta abbastanza, il bel racconto del giornalista del Secolo XIX Giovanni Mari, dal titolo Assalto alla fabbrica (People editore, pp. 204, euro 16), una tra le tante tragedie subìte da lavoratori italiani nel periodo dell’Asse, deportati a Mauthausen per essere utilizzati come schiavi di Adolf Hitler, secondo gli storici la più grande deportazione di operai nella storia italiana. Un libro pensato come romanzo, la cui narrazione scorre riuscendo a coinvolgere il lettore per la cruda realtà dei suoi contenuti, a cui si aggiunge la limpidezza di una prosa che rivela la penna consumata del cronista.

Ma come nasce l’idea di scriverne un libro? “Incontro questa storia dieci anni fa, per i settanta anni – ci racconta Mari -, quando uno sparuto gruppo di parenti organizza una manifestazione-mostra di quanto accaduto quel giorno a Genova, e da visitatore resto innamorato di questa storia. Da lì ho cominciato a curiosare, a documentarmi, anche attraverso alcuni dvd che i figli di quegli operai avevano filmato registrando la testimonianza dei loro genitori coinvolti direttamente nella vicenda. Molto materiale arriva anche dall’Istituto ligure per la Resistenza, dove si trovano conservate delle casse intere riguardanti questi temi. Così ho pensato di farne un libro”.

E il libro sta riscuotendo molto interesse, si susseguono incontri e presentazioni: “Sì, è vero, e ciò che mi inorgoglisce, senza presunzione, è che a questi incontri vengono i figli dei protagonisti, a volte e a loro volta con i propri, come nel caso del figlio di Francesco Rovida, che si è presentato con suo figlio ventenne. Vogliono sapere, e si commuovono come se ascoltassero tutto questo per la prima volta, ringraziandoti perché la loro storia era in molti casi sconosciuta, anche a Genova”.

Lo stile, si diceva, è di carattere narrativo, e anche questa è una scelta non banale, confermata dall’autore che ci spiega come “non volevo proporre una forma storico-saggistica, ma lavorare a un testo che risultasse infine divulgativo, partendo dal fatto che tutto quanto scritto dovesse essere rigorosamente vero, proprio per rivolgersi a chi non ne sa niente, per raccontare la storia umana di uomini e di donne, di una deportazione diversa dalle altre, non razziale, non di pulizia etnica, ma punitiva, perché si trattava di operai ribellatisi al nazifascismo, e perché al Reich servivano per costruire i loro carri armati”.

Furono circa 23mila le italiane e gli italiani deportati in Germania per queste ragioni in quei mesi di guerra, e oltre 100mila i lavoratori costretti a fornire la propria opera per la costruzione della macchina dell’oppressione nazista. Tra i tanti passaggi del volume che potrebbero essere citati per restituire lo spirito di una tale disumanità scegliamo uno tra i più toccanti:

Poco prima delle 7 di sera si muove anche il secondo convoglio. Le urla dei parenti si sentono fuori la stazione. Ma i genovesi si sono raccontati la triste storia e attendono lungo i binari su tutto il tratto cittadino. Questo secondo treno troverà una piccola folla al passaggio in ogni stazione, riceverà aiuti di ogni sorta infilati dai finestrini e dalle fessure e un incoraggiamento senza eguali dai genovesi in ansia. Così, mentre i convogli scorrono lentamente lungo la strada ferrata, ai lati del secondo treno, in particolare, si affollano ancora madri e figli, in lacrime, a cercare tra le grate un volto famigliare. Volano insulti al vagone delle guardie, armate, che ancora minacciano quelle donne piangenti”.

 

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