Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Antonio Verrascina.
Other Identity: Antonio Verrascina
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«La mia rappresentazione di arte nasce da un’esigenza personale, un bisogno di esprimere un pensiero interiore che non riesco a comprendere fino a quando non emerge sotto forma di immagine o testo. Il mio obiettivo è riconoscere qualcosa che già esiste ma non ha ancora assunto una forma definita. Ho recentemente letto in un libro di poesie per bambini che il poeta prima cerca e poi trova. Credo che la fotografia, e l’arte in generale, offrano la possibilità di condurre ricerche e trasformare ciò che si incontra, renderlo materia nuova. Successivamente, l’istinto mi porta a trovare dei punti in comune tra ciò che sento e la storia che cerco di raccontare; i pezzi si incastrano alla perfezione tra di loro».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Racconto un sentimento che nasce spontaneamente da dentro, così forte che ha bisogno di uscire, di essere rappresentato ed inserito in una storia dal tratto onirico e surreale. Non esiste una verità assoluta nelle mie storie o un percorso definito; si tratta di un luogo in cui entrare e sostare fino a quando se ne sente l’esigenza. Ognuno porta con sé il pezzo di storia che preferisce. Attraverso le storie che racconto, sono costantemente alla ricerca di me stesso; per questo motivo, diventa necessario lo scambio con chi guarda i miei lavori, l’incontro di mondi diversi che dà vita a nuove storie, nuove verità».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Non ha molta importanza; quello che conta è creare mondi, vivere all’interno di essi e accogliere quante più persone sentano l’esigenza di perdersi e ritrovarsi all’interno delle mie storie. Sento l’esigenza di incontrare un pubblico che comprenda ciò che sento, ciò che vedo. Io stesso ho bisogno di incontrare le storie degli altri, per perdermi e ritrovarmi».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Penso che sia impossibile essere originali nel senso che tutto è già stato creato o affrontato in qualche modo. Quello che si fa è semplicemente dare nuova vita a concetti che esistono da molto prima che io nascessi. Quello che fa un artista è incontrare diversi frammenti, metterli insieme, trasformarli in qualcosa di nuovo, dare una luce nuova a qualcosa che già esiste, dare la propria impronta, la propria visione. È importante fare pace con questa verità perché la ricerca dell’originalità può portare a frustrazione e blocchi creativi. Ho trovato molti dei miei riferimenti non tanto nella fotografia, ma nel cinema, nella letteratura e nella poesia; tra i miei autori preferiti ci sono David Lynch, Haruki Murakami e Raymond Carver».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Non saprei se definirmi un artista o meno. Credo di avere una forte empatia, un sentire che chiede molto, di aver avuto la necessità di trovare un modo per accogliere e rispondere allo stesso tempo a tutto questo. Nel corso della vita si raccolgono così tante emozioni diverse a cui spesso non riusciamo ad associare un senso; talvolta ci si sente smarriti. Nel corso della vita raccogliamo diverse esperienze positive e non che restano all’interno di noi per molto tempo, li stipiamo dentro cassetti pensando che molte di esse siano andate perdute, per poi ricomparire all’improvviso dopo anni. Per me, raccontare storie e dare sfogo a tutto ciò che si ha dentro, sperando di incontrare qualcuno che raccolga queste storie e ne porti un pezzo con sé».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Mi è capitato di pensare a come sarebbe stata la mia vita se fossi stato altro, ma poi si finisce con l’essere gelosi della propria identità, fatta di alti e bassi, di difetti e pregi, paure. Quindi penso che la risposta definitiva sia no, tengo tutto il mio bagaglio».
Biografia
Antonio Verrascina (Milano, 1983) è un fotografo che vive e lavora a Milano. Con un background nel mondo della finanza, usa la fotografia come mezzo di espressione e strumento di indagine. Nella sua ricerca passione ed ossessione convivono e si nutrono vicendevolmente, la macchina fotografica diviene estensione dei sensi nell’incontro con il mondo esterno, che nelle sue immagini appare sempre come il riflesso di una ricerca introspettiva: il suo processo è istintivo, lascia fluire le domande attraverso le immagini e viceversa. Il suo lavoro sfiora temi come la memoria, il passaggio del tempo, la solitudine, il sogno come luogo in cui si rivelano i molteplici aspetti dell’io e della realtà. Sperimenta spesso accostando immagini, parole, musica, attraverso il video e la realizzazione di piccole pubblicazioni.
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