di Andrea Martini
La finanziaria, come avevamo già affermato qualche giorno fa, quando disponevamo però solo di un brogliaccio iniziale, sembra rispettare pedissequamente i parametri del “nuovo” patto di stabilità europeopost-pandemia, e in particolare l’indicazione di portare nel 2027 il rapporto deficit/PIL al 2,6%. Per farlo usa a piene mani le forbici, o meglio, l’ascia, con pesanti tagli (benevolmente descritti come “riduzione e razionalizzazione della spesa”) ai bilanci di tutti i ministeri (salvo quello della Sanità e quello della Difesa): i tagli saranno di 5,2 miliardi nel 2025, altri 4 miliardi nel 2026 e ulteriori 3,5 miliardi nel 2027.
I tagli ai ministeri si tradurranno ovviamente in drastiche riduzioni dei servizi e degli investimenti che i vari dicasteri erogano, dunque ancora meno stato sociale e meno occupazione (si reintroduce un parziale blocco del turn over: saranno sostituiti solo 3 su 4 lavoratori pubblici pensionati). Ad esempio, nella scuola la manovra comporta un drastico taglio agli organici (5.660 posti in meno per insegnanti e 2.174 posti in meno per il personale amministrativo, tecnico e ausiliario), mettendo così in crisi il tempo pieno, il sostegno ai ragazzi e alle ragazze con handicap, il funzionamento già problematico dei servizi di segreteria e lo stesso rinnovo contrattuale. E negando il futuro alle centinaia di migliaia di precari che attendono da anni la stabilizzazione.
A questi si aggiungono tagli di 4 miliardi nel triennio agli enti locali: 570 milioni per il 2025, di cui 140 milioni saranno a carico di comuni, province e città metropolitane, che arriveranno a 290 milioni nel triennio 2026-2028 e a 490 milioni nel 2029. Considerando anche il taglio alle spese per investimenti (taglio del fondo per le piccole opere comunali, riduzione degli investimenti per “rigenerazione urbana” e per la “qualità dell’abitare”), i comuni per il 2025 avranno a disposizione 1,6 miliardi in meno. Anche qui, naturalmente, i comuni, avendo meno soldi a disposizione, procederanno a loro volta a tagliare i servizi o a farli pagare con l’aumento delle tariffe e delle addizionali locali dell’Irpef e ridurranno gli investimenti in direzione del miglioramento della vivibilità delle città. Sempre a danno dei comuni, la manovra prevede inoltre che tra il 2029 e il 2034 il fondo per investimenti locali sarà ridotto di 2,1 miliardi di euro all’anno.
Per quel che riguarda la sanità (che nella propaganda governativa verrebbe premiata con “finanziamenti record”), in realtà gli stanziamenti (che a conti fatti assommano a 1,3 miliardi) saranno sostanzialmente sufficienti al massimo per il dovuto rinnovo contrattuale del personale, peraltro con risorse concretamente esigibili nei salari solo a partire dal 2026. Dunque gli stanziamenti non riusciranno a promuovere il piano di assunzioni di medici e infermieri assolutamente necessario e persino promesso dal governo, e dunque neanche a eliminare o almeno ridurre significativamente le liste di attesa per le prestazioni. Il personale della sanità pubblica, sottoposto a turni e a carichi di lavoro massacranti, continuerà ad essere del tutto insufficiente e a vivere, come torna ad affermare la fondazione Gimbe, “una stagione di demotivazione e disaffezione senza precedenti”.
Quanto ai rinnovi contrattuali del resto dei lavoratori pubblici (3,3 milioni di persone), la manovra stanzia fondi (1,7 miliardi per il 2025, 3,5 per il 2026 e 5,5 per il 2027) del tutto insufficienti a recuperare in misura significativa la forte perdita di potere d’acquisto causata dall’inflazione degli ultimi anni (circa il 20% dal 2021, dati Istat).
Occorre dire, però, che su queste materie (sanità e difesa dall’inflazione) il governo Meloni si colloca nella piena continuità rispetto alle politiche di tutti i precedenti governi, almeno di quelli degli ultimi 15 anni.
Anche per le banche e per le assicurazioni nessuna sorpresa e nessun “sacrificio”, neanche una minima tassazione degli extraprofitti (quasi 50 miliardi di utili ogni anno nel 2022 e nel 2023), ma solo un rinvio dell’utilizzo di alcuni sconti fiscali (le “imposte differite attive”) che farebbe entrare nel bilancio dello stato tra i 3 e i 4 miliardi di euro in due anni: le banche, dunque, pagheranno prima quello che avrebbero comunque dovuto pagare dopo (ma poi pagheranno meno, con danni seppur diluiti nei bilanci degli anni futuri). Con buona pace della logora demagogia da quattro soldi di Salvini e della Lega che, per osannare la manovra, avevano dichiarato “Paghino i banchieri non gli operai”. E con la benedizione di Marina Berlusconi (proprietaria della Banca Mediolanum) che, proprio l’altroieri, ha espresso il suo giudizio “assolutamente positivo” sul governo Meloni e sulla sua finanziaria.
Sul piano fiscale, come ampiamente preannunciato, la manovra conferma le tre aliquote Irpef (23%, 35% e 43%), il taglio del cuneo fiscale (ma portando il limite di reddito da 35.000 a 40.000) e il riordino delle detrazioni, con un taglio di queste ultime per le famiglie con redditi oltre i 75mila euro ma tenendo conto del numero di figli. Dunque, neanche un euro in più in tasca ai lavoratori e ai pensionati, salvo l’oltraggioso incremento di 3 euro mensili (10 centesimi al giorno) per le pensioni minime (617,88 euro).
Rimanendo sulla previdenza, ad essere definitivamente “abrogata” è proprio (per chi ci aveva creduto) la promessa di “cancellare la riforma Fornero”, con le possibilità di “uscita anticipata” (quota 103, APE sociale, Opzione donna) pesantemente penalizzate attraverso il calcolo contributivo. La manovra vuole anche incentivare i lavoratori del settore pubblico a rimanere in servizio fino a 70 anni, favorendoli con la decontribuzione.
Sul piano sociale, la manovra stanzia 330 milioni (2025) e 360 milioni (2026) per il “bonus bebè”, al fine di incentivare la natalità e premiare con 1.000 euro le famiglie (con Isee entro i 40.000 euro) per ogni figlio nato, e aggiunge qualche decina di milioni per allungare il congedo parentale (retribuito all’80%) da due a tre mesi e per aumentare, seppure in misura irrisoria, il sostegno per il pagamento delle rette degli asili nido.
Per contrastare la povertà solo pochi spiccioli, 50 milioni per il fondo per la distribuzione di derrate alimentari e 2,3 milioni la carta “dedicata a te”, utile per fare qualche acquisto nei supermercati convenzionati.
Si prevedono poi una serie di sussidi a pioggia alle imprese con i più svariati pretesti: la digitalizzazione, il passaggio al modello di “industria 5.0”, la cybersecurity, la “sanità digitale” (cioè gli strumenti di monitoraggio e di diagnosi a distanza), lo sviluppo turistico, la ricerca agricola e zootecnica… anche se, occorre riconoscerlo, si tratta comunque di contributi alle aziende molto più modesti di quanto accadeva negli anni scorsi.
Il supporto più forte alle aziende di questa manovra resta la riduzione del cuneo fiscale che, mantenendo quelle poche decine di euro in più sulle retribuzioni nette, aiuta le aziende a resistere alla pressione sindacale per un vero recupero salariale rispetto all’inflazione degli ultimi anni. Non solo, la manovra riconferma la defiscalizzazione del “salario di produttività” (un aiuto alle imprese a aumentare ritmi e sfruttamento a discapito delle casse erariali) e del “welfare aziendale” (un aiuto alle imprese assicuratrici e alla sanità privata e un ulteriore attacco a quella pubblica) e gli “incentivi alle assunzioni”.
Sostanzialmente assente dalla manovra la preoccupazione climatica e ambientale, nonostante la drammatica realtà di un’estate durissima sul piano della siccità e delle devastanti alluvioni autunnali. Anzi, con l’articolo 8 della manovra si operano vari tagli e riduzione delle aliquote per i vari bonus edilizi, limitando pesantemente le possibilità, soprattutto per le famiglie a medio e basso reddito, di operare interventi di riqualificazione energetica degli edifici e, conseguentemente, creando le condizioni per una nuova crisi occupazionale nell’industria delle costruzioni, la cui espansione negli ultimi anni aveva agito in controtendenza rispetto alla contrazione degli altri settori produttivi.
Come si vede, dunque, una legge di bilancio che, con un fuoco di copertura demagogico e di estrema destra, mette in atto una politica sociale rigorosamente in linea con l’austerità neoliberale europea, tagliando pesantemente ogni risorsa per quel che resta dei servizi sociali un tempo universali, attacca il lavoro pubblico, taglia le tasse per i ceti più agiati, aiuta le imprese, non mette un soldo per la lotta alla povertà e alle diseguaglianze, trascura l’emergenza ambientalee protegge i profitti e le rendite da ogni prelievo redistributivo. Dimostrando, a chi se ne vuol rendere conto, il carattere fraudolento e mistificatorio di una destra che vorrebbe presentarsi come “sociale” e contro le élite. Una destra perfettamente in linea con le esigenze economiche e sociali delle classi dominantie pronta a regalare a quelle classi uno stato sempre più autoritario (DDL 1660, “premierato”, “autonomia differenziata”, controriforma della giustizia, decreti anti migranti…).
I sindacati confederali, o meglio Cgil e Uil (visto che la Cisl consolida la sua funzione di “sindacato giallo” con un esplicito plauso alle scelte economico-sociali del governo che, dice, “corrispondono ai suoi obiettivi”) stanno pensando all’ipotesi di uno sciopero generale intercategoriale, mentre il sindacato Scuola Università e Ricerca FLC ha già indetto uno sciopero nazionale per il 31 ottobre (giorno nel quale USB, CUB e altri sindacati di base avevano già chiamato tutti i lavoratori pubblici ad uno sciopero) e i sindacati dei lavoratori dei trasporti (compresi i sindacati di base) hanno proclamato un’astensione dal lavoro per l’8 novembre.
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