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REDDITI, IRPEF E SPESA PER IL WELFARE: QUEI CONTI CHE NON TORNANO #finsubito prestito immediato


(AGENPARL) – Roma, 29 Ottobre 2024

(AGENPARL) – mar 29 ottobre 2024 COMUNICATO STAMPA
Redditi, IRPEF e spesa per il welfare: quei conti che non tornano
Presentato l’Osservatorio Itinerari Previdenziali sulle entrate fiscali: il 75,80% degli italiani dichiara redditi fino a 29mila euro, corrispondendo solo il 24,43% di tutta l’IRPEF, un’imposta neppure sufficiente a coprire la spesa per sanità e assistenza. I numeri migliorano ma meno di quanto crescita del PIL e dell’occupazione lascerebbero auspicare e, soprattutto, meno di quanto richiederebbe la sostenibilità del nostro welfare
Il presidente Cida, Cuzzilla: “In Italia vale il principio che maggiore è il contributo fiscale, minori sono i servizi pubblici di ritorno. Quindi chi guadagna, ad esempio, dai 55.000 euro in su (oggi poco più del 5 % del totale) si fa carico da solo di circa il 42% del gettito fiscale e non riceve nulla in cambio. A peggiorare il quadro arriva la nuova Manovra, con tagli ai massimali delle detrazioni a partire dai 75.000 euro”.
Sicuramente condizionato dalla ripresa COVID-19, quello che emerge dall’ultimo Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate Itinerari Previdenziali sembrerebbe un quadro in apparenza positivo se non fosse che, dati alla mano, resta sostanzialmente invariata la quota di contribuenti che effettivamente sostiene il Paese con tasse e contributi, e di contro troppo alta quella di cittadini totalmente o parzialmente a carico della collettività: malgrado il miglioramento PIL e occupazione, il 45,16% degli italiani non ha redditi e di conseguenza vive a carico di qualcuno. Su 42 milioni di dichiaranti, poi, il 75,57% dell’intera IRPEF è pagato da circa 10 milioni di milioni di contribuenti, mentre i restanti 32 ne pagano solo il 24,43%.
Come garantire innanzitutto la sostenibilità innanzitutto del nostro sistema di protezione sociale ma, più in generale, produttività e sviluppo del Paese se il grosso del carico fiscale grava su una ristretta minoranza? Questa la domanda che ha animato questo pomeriggio presso la nuova Aula dei Gruppo Parlamentari il convegno “Il difficile finanziamento del welfare italiano”, nel corso del quale sono stati presentati a politica e media i risultati dell’indagine annuale realizzata dal Centro Studi e Ricerche presieduto dal Prof. Brambilla. Realizzato in collaborazione con CIDA, anche quest’anno tra i sostenitori della ricerca, l’Osservatorio realizza un’analisi delle dichiarazioni individuali dei redditi IRPEF e delle altre principali imposte dirette e indirette (tra cui IRAP, IRES, ISOST e gettito IVA), con l’obiettivo di ottenere indicatori utili a comprendere l’effettiva situazione socio-economica del Paese e a verificare la tenuta del suo sistema di protezione sociale.
“Le dichiarazioni Irpef rese l’anno scorso fotografano una positiva tendenza dell’occupazione, che è tornata a crescere, e questo non può che farci piacere. Se aumenta il numero di contribuenti relativamente alle fasce medie significa che abbiamo maggiori speranze di garantire sostenibilità al welfare pubblico in futuro. Ecco perché è importante non tradire il ceto medio. Tassarlo oltre a quanto già non si faccia, proprio ora che inizia a rinfoltirsi, potrebbe avere effetti recessivi sull’intera dinamica”, – ha commentato Stefano Cuzzilla, Presidente CIDA.
“Il motivo? Perché In Italia vale il principio che maggiore è il contributo fiscale, minori sono i servizi pubblici di ritorno – chiarisce il presidente -. Quindi chi guadagna, ad esempio, dai 55.000 euro in su (oggi poco più del 5 % del totale) si fa carico da solo di circa il 42% del gettito fiscale e non riceve nulla in cambio. A peggiorare il quadro arriva la nuova Manovra, con tagli ai massimali delle detrazioni a partire dai 75.000 euro che, di fatto, rappresentano un aumento di tassazione per chi contribuisce di più. Si trasmette così un messaggio allarmante: che in Italia non conviene eccellere, produrre o innovare. Conviene, invece, evadere e occultare”.
“Non a caso, un quinto dei contribuenti italiani dichiara redditi minimi o nulli. Una fetta consistente che non è degna di una delle più grandi potenze industrializzate. Un Paese che, purtroppo, vive di assistenza e assistenzialismo, mentre affonda nell’economia sommersa. Basti pensare che in 10 anni la spesa per il welfare è aumentata del 30% a causa di una vertiginosa spesa in assistenza, pari a +126%. Di fatto, nel nostro sistema fiscale il peso per chi produce e contribuisce è ormai insostenibile – conclude Cuzzilla -. Mentre l’inflazione ha mangiato il 24% del potere d’acquisto in 15 anni, questa minoranza continua a sostenere sanità, assistenza sociale e servizi per tutti, spesso senza alcun beneficio diretto. Mi chiedo fino a quando sarà disponibile a farlo”.
Il difficile finanziamento del welfare italiano – Come rilevato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, nel 2022 sono statati necessari 131 miliardi per la spesa sanitaria, oltre 157 per l’assistenza sociale e altri circa 13 miliardi per il welfare degli enti locali. Un conto totale che supera i 300 miliardi che, in assenza di tasse di scopo (come, ad esempio, accade per le pensioni che sono in attivo al netto dell’IRPEF), viene finanziato attingendo fiscalità generale: a queste sole 3 voci di spesa sono state dunque destinate nell’ultimo anno di rilevazione pressoché tutte le imposte dirette IRPEF, addizionali, IRES, IRAP e ISOST e anche 23,77 miliardi di imposte indirette, in primis l’IVA. «Negli ultimi 15 anni i redditi dichiarati sono aumentati del 21,44%, mentre la spesa per il welfare è cresciuta di circa il 38%, trainata soprattutto da quella assistenziale, il cui valore tende ormai ad avvicinarsi pericolosamente al gettito dell’IRPEF ordinaria. Basta questo semplice confronto per capire come si sia davanti a un onere, già oggi e ancora di più in futuro, molto gravoso da sostenere – ha commentato il Prof. Alberto Brambilla, curatore del volume insieme al dott. Paolo Novati – e che lascia ad altre funzioni statali, indispensabili allo sviluppo del Paese (come scuola, infrastrutture, investimenti in capitale e così via), solo le residuali imposte indirette, le accise e la strada del debito. Debito che ogni anno aumenta spaventosamente nella totale indifferenza generale e, infatti, siamo il fanalino di coda in Europa per occupazione e produttività».
Figura 2 – Percentuale di imposte pagate per scaglione di contribuenti
La redistribuzione della ricchezza e le proposte di riforma fiscale – Sintetizzando, dall’Osservatorio emerge sì una riduzione dei dichiaranti con redditi bassi in favore di quelli medio-alti ma, anche per effetto di bonus e detrazioni, non ci sono invece variazioni sostanziali nella ripartizione del carico fiscale che pesa sulle spalle di uno sparuto ceto medio, escluso invece dalla maggior parte delle agevolazioni. «Giusto aiutare chi ha bisogno, così come garantire a tutti diritti primari come quello alla salute – la precisazione del Prof. Brambilla – ma i nostri decisori politici tendono spesso a trascurare come queste percentuali dipendano anche da economia sommersa ed evasione fiscale per le quali primeggiamo in Europa: è davvero credibile che quasi la metà degli italiani viva con circa di 10mila euro lordi l’anno?». Tra i falsi miti sfatati dalla pubblicazione c’è di riflesso quello dell’oppressione fiscale, che vuole (tutti) i cittadini tartassati dal fisco e penalizzati delle eccessive imposte. Solo per pagare la spesa sanitaria, per i primi 2 scaglioni di reddito fino a 15mila euro, la differenza tra l’IRPEF versata e il costo della sanità supera i 50 miliardi; la differenza sale a 57,8 miliardi sommando i redditi da 15 a 20mila euro. Considerando anche spesa assistenziale e welfare degli enti locali, la redistribuzione totale è pari a 240,56 miliardi su circa 661 di entrate, al netto dei contributi sociali. In pratica, viene redistribuito l’86,33% di tutte le imposte dirette (circa 278 miliardi) a beneficio soprattutto del 53,19% degli italiani delle prime tre fasce fino 20mila euro e, in parte, al restante 22,61% corrispondente ai dichiaranti tra i 20 e 29mila euro. «Un costante trasferimento di ricchezza, sotto forma di servizi gratuiti di cui quest’enorme platea di beneficiari non si rende neppure conto – puntualizza Brambilla – anche a causa delle ripetute promesse di nuove elargizioni da parte della politica, cui fa da contraltare la continua minaccia di abolizione delle tax expenditures per i redditi più alti». Redditi, che peraltro già scontano l’italico paradosso secondo il quale più tasse si pagano e meno servizi si ricevono (e viceversa): una situazione che rischia di penalizzare quanti contribuiscono regolarmente incentivando i cittadini a evadere o a sotto-dichiarare così da non rinunciare a prestazioni sociali o altre agevolazioni da parte di Stato, Regioni e comuni.
Per il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali è dunque il momento di lavorare, in ambito fiscale, su soluzioni nuove, concretamente calate sulla realtà del Paese. Se il contrasto di interessi tra clienti e fornitori diretti di beni e servizi potrebbe rivelarsi un ottimo modo per favorire l’emersione e al tempo stesso agevolare le finanze delle famiglie italiane, un maggiore sviluppo del welfare aziendale, insieme alla detassazione di premi, aumenti salariali e straordinari, potrebbe essere la giusta via per ridurre il cosiddetto cuneo fiscale-contributivo a carico dei lavoratori dipendenti in modo equo e sostenibile per le finanze dello Stato. Certamente, secondo il Professore, più della decontribuzione, che negli ultimi 3 anni ha portato a un mancato gettito nelle casse INPS pari ad almeno 66 miliardi.
L’Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate “Le dichiarazioni dei redditi 2022: l’analisi IRPEF e delle altre imposte dirette e indirette per importi, tipologia dei contribuenti e territori negli ultimi 15 anni” è disponibile per la consultazione al link: https://www.itinerariprevidenziali.it/site/home/biblioteca/pubblicazioni/dichiarazioni-dei-redditi-ai-fini-irpef-2022.html



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