“Gruppo trentino costituiva un punto di riferimento per le cosche calabresi”
Sono state depositate le motivazioni con le quali la corte di Cassazione, lo scorso settembre, aveva respinto i ricorsi presentati da Morello Domenico e Denise Pietro, condannati in appello a dieci anni il primo e a 6 anni e otto mesi il secondo nell’ambito del procedimento scaturito dall’indagine “Perfido”, sulle infiltrazioni della ‘Ndrangheta nel settore del porfido in Trentino. Gli avvocati dei due imputati avevano insistito sull’estraneità dei loro assistiti nei confronti delle accuse mosse dalla Procura, in particolare in relazione all’associazione a delinquere di tipo mafioso. In particolare nei ricorsi presentati si metteva in dubbio, tra le altre cose, l’esistenza di una locale mafiosa in Trentino. Ma i giudici hanno specificato che la Corte d’appello di Trento riformando parzialmente la sentenza di primo grado emessa del giudizio abbreviato aveva confermato la responsabilità di Morello come “organizzatore di una ‘locale’ di ‘Ndrangheta operante nella provincia di Trento” mentre per Pietro veniva confermata “la partecipazione alla predetta associazione, pur riconoscendosi le attenuanti generiche”.
In sintesi ad entrambi veniva contestata l’appartenenza “alla locale di ‘Ndrangheta – promanazione delle cosche calabresi riferite alle famiglie Serraino, Paviglianiti e Iamonte – dotata di autonomia decisionale e stanziatasi in provincia di Trento, ove avrebbe acquisito il controllo del settore dall’estrazione e dalla lavorazione del porfido, nonché l’inserimento in altre attività imprenditoriali e nel contesto politico locale”. Per i supremi giudici “la motivazione della Corte di appello, in merito all’esistenza della locale trentina ed al ruolo al suo interno svolto da Morello, sia immune da censure. L’esistenza dell’associazione e il ruolo al suo interno svolto da Morello sono state accertate sulla base delle innumerevoli intercettazioni nel corso delle quali i principali esponenti del sodalizio danno ampiamente atto della loro appartenenza alla ‘Ndrangheta, degli stretti rapporti con le rispettive cosche di provenienza, nonché della creazione di un’associazione, diretta promanazione di quella calabrese, operante in Provincia di Trento”. Anche l’interpretazione data al contenuto delle intercettazioni sono state messe in dubbio dai ricorrenti.
Gli ermellini però non solo hanno specificato che “il quadro probatorio non è sorretto dalle sole intercettazioni espressamente richiamate nel paragrafo relative all’instaurarsi del vincolo associativo nel territorio trentino ma “anche nel proseguo della motivazione lì dove si descrivono i rapporti con le cosche calabresi. In plurimi passaggi, Macheda Innocenzio (che ha ricoperto il ruolo di vertice, ndr), Morello e anche Denise discorrono apertamente dell’appartenenza all’associazione, delle dinamiche interne alle singole cosche”. “Né è contestabile il riconoscimento della “locale” da parte delle cosche di provenienza degli associati, posto che le intercettazioni in atti, ampiamente richiamate nella motivazione della sentenza impugnata, danno atto del contrario, lì dove si descrivono i rapporti tra gli esponenti di vertice del gruppo trentino rispetto alle cosche calabresi, ai continui contatti, alla condivisione di informazione, alla messa a disposizione per nuove iniziative imprenditoriali. In buona sostanza, è dimostrato che il gruppo trentino costituiva un punto di riferimento per le cosche calabresi che ne riconoscevano l’esistenza e l’autonomia”, si legge nelle motivazioni.
Inoltre, per quanto riguarda Denise: “I rapporti con elementi appartenenti alla criminalità̀ organizzata calabrese sono talmente diffusi e consolidati che, ove pure si escludessero le intercettazioni relative a Serraino, il quadro probatorio risulterebbe del tutto immutato”. Infine nei ricorsi era stata addirittura messa in dubbio anche l’aggravante di associazione armata, poiché la disponibilità di armi non sarebbe stata dimostrata come collettiva.
La Cassazione ha rigettato anche questo poiché “manifestamente infondato oltre che generico” poiché “la Corte di appello ampiamente dato atto di come proprio Morello disponeva di armi che, sia pur lecitamente detenute per uso sportivo, venivano in realtà impiegate al più generale fine di affermare la capacità delinquenziale e intimidatoria; sintomatica la conversazione nella quale Morello si vanta con un altro sodale di aver utilizzato la pistola per intimidire i vicini di casa”. Ma “ancor più eloquente la conversazione nella quale Morello, parlando con Alampi (a sua volta imputato per il reato associativo) discorre dell’opportunità di andare in Calabria a prendere una pistola, proponendosi di andare lui stesso per riportarla in Trentino”.
Foto © Imagoeconomica
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