Dalla Basilica di San Marco al giardino del Redentore, la città a cinque anni dal 12 novembre
L’ultimo a rinascere è stato l’orto giardino del Redentore alla Giudecca, ma prima ancora ci sono stati la Basilica di San Marco, Ca’ Rezzonico, museo Fortuny, Querini Stampalia, Conservatorio Benedetto Marcello, il muro dell’isola degli Armeni e la Fenice. Dopo cinque anni da quell’indimenticabile notte del 12 novembre 2019, quando la marea ha raggiunto i 187 centimetri e il vento i 100 chilometri all’ora, Venezia ha dimostrato di sapersi rialzare. Non è stato soltanto grazie ai soldi dello Stato e dei tantissimi donatori, ma soprattutto al desiderio di prendersi cura della città e di continuare a viverci, come dimostra il Premio Veneziano dell’Anno 2019 consegnato «agli angeli dell’acqua». I danni stimati ammontavano a un miliardo di euro: per ora lo Stato ha elargito 150 milioni, ma molti altri sono giunti da privati e raccolte fondi. Le ferite sono diventate cicatrici, ma oltre al dolore ricordano la volontà di rinascere, come dimostra la Basilica di San Marco, colpita nel suo cuore, la cripta dove riposano i Patriarchi.
Gli interventi
«Le fabbricerie sono organismi viventi e bisogna accompagnarle giorno per giorno», spiega il primo procuratore Bruno Barel. Quel momento è stato la spinta per tanti interventi: la realizzazione della barriera di vetro attuale, progettata dal proto Mario Piana e dall’ingegnere Daniele Rinaldo, per proteggere l’acqua che arriva da piazza San Marco (quasi 5 milioni); la rimozione del sale corrosivo dal nartece e dalla cappella del Santissimo Sacramento (3,3 milioni del Mic); i lavori per proteggere la Basilica e il palazzo Patriarcale dalla marea proveniente dal lato del rio Canonica (890 mila euro della Procuratoria); il consolidamento dei rivestimenti marmorei del portale centrale (230 mila euro) e dal 7 gennaio, la partenza di tre lotti finanziati dal Mit per la manutenzioni delle falde di copertura in legno del tetto della Basilica soggette a infiltrazioni (quasi 2 milioni). Cinque anni fa il giardino del convento dei Frati Cappuccini del Redentore era disseminato di mattoni, resti del muretto distrutto dalla furia dell’acqua. Adele Sandretto, fondatrice di Venice Gardens Foundation, chiese ai Frati di potersene prendere cura avviando una ricerca fondi (5,7 milioni: 2 del Pnrr e il restante da mecenati) che si è concretizzata nell’orto giardino, un paradiso di verde e arte, visibile dallo scorso 26 ottobre.
I resti della devastazione
La mattina del 13 novembre 2019 le gondole erano sparse sulle fondamenta, i vetri di molti negozi in frantumi e le persone disperate a cercare di salvare il salvabile. L’acqua mostrava in superficie i resti della devastazione, come il crocifisso di San Moisé, uno dei simboli della marea eccezionale. Oggi è tornato al suo posto grazie al restauro di 151 mila euro di Venetian Heritage, comitato internazionale per la salvaguardia di Venezia che, grazie ai fondi raccolti, donò una somma anche per l’Ambone dell’Epistola (77 mila euro) e avviò, proprio dopo la cosiddetta acqua granda, l’intervento su Ca’ D’Oro di nove milioni di euro, ancora in corso.
La ricostruzione e l’orgoglio
L’orgoglio di non affliggersi e di rimboccarsi le maniche ha spinto ognuno a fare la sua parte per rendere Venezia più bella. I musei Civici hanno restaurato Ca’ Rezzonico (il più danneggiato), il museo Fortuny (intervento conservativo al piano terra) e Ca’ Pesaro (restauro dell’opera Cardinale di Giacomo Manzù). Quella notte l’acqua si stava portando via scaffali su scaffali di manoscritti, documenti e libri che ora sono di nuovo leggibili nelle biblioteche della Querini (600 mila euro di donazioni tra pubblico e privato per volumi e miscellanee) e del Conservatorio (470 mila euro). In questi casi, come accadde anche alla Fenice, le paratoie non furono abbastanza. Il giorno dopo Venezia era piena di pagine, libri, spartiti e manoscritti all’aria, nella speranza che potessero asciugarsi per poi poterli restaurare, come in parte avvenne. Eppure, nonostante il disastro, l’orgoglio di farcela prevalse, a partire dalla Fenice. Quella notte le paratoie di 183 centimetri vennero scavalcate dalla marea che invase la macchina scenica e parte degli impianti a due settimane dalla prima, il Don Carlo di Verdi. Dopo il fuoco del 1996, quella fu la prova dell’acqua. Sembrava impossibile, ma il Teatro riuscì ad aprire. Era solo l’inizio della rinascita.
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