Alla fine degli anni ’90 del secolo scorso spesso passavo a trovarlo in Facoltà in tarda mattinata e lo accompagnavo a piedi di ritorno a casa, via Appennini 42. È cominciata così una lunga amicizia che con gli anni si è tradotta anche in un libro: Tornando a casa. Conversazioni con Franco Ferrarotti 1990-2002. Un giorno, rientrando gli ho chiesto: «Lei, che da anni promuove la metodologia delle storie di vita, che ne direbbe di essere vittima di questo approccio?». Mi ha confessato di avere delle difficoltà ma dopo qualche settimana ha accettato la sfida e tra di noi, ora seduti nel soggiorno di casa, è apparso il registratore.
Mi diceva: «Parlare in modo ordinato della mia storia, come conclusa, mi risulta impossibile. Ho anche l’impressione di dover morire un giorno con le scarpe ai piedi e questo fa parte anche del mio vissuto e dell’impianto asistematico del mio approccio». Oggi quel giorno purtroppo è arrivato ma sarebbe ingiusto parlare in modo «sistematico» della sua vita.
NON POSSIAMO DIRE che Ferrarotti sia dentro le sue opere, anche se i libri sono stati sempre a suo fianco e ha continuato a scrivere fino alla fine, a 98 anni. Il primo libro è stato pubblicato quando ne aveva solo 17 anni, oggi diremo un ragazzino, ma allora, durante la guerra, i tempi erano altri e Ferrarotti era attivo con la resistenza. «Un libretto che non si trova più – mi diceva – si chiamava Punti fermi, ed è un libro assolutamente anarchico» che raccoglieva le conferenze clandestine che allora teneva nelle Langhe.
Chi era Ferrarotti? I giornali, a coro, parlano della morte del «padre della sociologia italiana». Lui riconosceva questo innegabile primato (è stato il primo a vincere un concorso per una cattedra di sociologia), ed anche se era critico nei confronti dei sociologi italiani, si riteneva responsabile dell’andamento errante della disciplina: si fanno piccole ricerche, insignificanti, manca una visione d’insieme che recuperi e tenti di ricucire i legami di una società individualista e frantumata.
Ferrarotti è stato un osservatore curioso e irrequieto, un lettore famelico, mai soddisfatto e sempre alla ricerca di nuove prospettive. Si presentava però come un «pessimo lettore», diceva che i libri gli «annusava» e poi scriveva, senza sosta, un vulcano, scriveva giorno e notte, aveva addirittura un taccuino sul comodino del letto per le idee notturne. Si accumulavano montagne di fogli ovunque, nel suo studio e poi a casa sui tavoli, le poltrone ne erano rimaste sommerse. Perfino il pianoforte. Non usava il computer, nemmeno adoperava la sua vecchia macchina da scrivere, naturalmente Olivetti. Negli ultimi anni aveva deciso di scrivere solo a mano, e con una calligrafia che lui stesso definiva indecifrabile.
Difficile definirlo. Un giorno mi disse: se dovessi scegliere un libro che mi rappresenti sceglierei La sociologia come partecipazione. Fare sociologia significa calarsi nella società, uscire dall’accademia e impegnarsi nel sociale. Se c’è una disciplina che non può chiudersi su se stessa è questa. Sosteneva che «ogni ricerca è una co-ricerca fondata sull’interazione tra ricercatore e ricercato, una sorta di circolo ermeneutico con tutte le difficoltà e ambiguità che comporta».
NESSUNO PUÒ RIMANERE fuori dalla società. «La sociologia è nata come un grande sogno di riforma e di rigenerazione dell’umanità, oggi deve ricordare come era, deve riprendere l’elemento rivoluzionario che è nella sua storia». Il contributo della sociologia è quello di una visione plurale, con un orizzonte universale, globalizzato, senza esclusi. L’individualismo della razionalità economica capitalista produce un mondo mosaico, scollegato e violento. Si procede senza guida, oppure, guidati dalle fluttuazioni del mercato, manca un futuro possibile.
«Il compito oggi è quello di recuperare l’essere umano come fine ultimo e non come strumento». Questo compito della sociologia è diventato fondamentale per la stessa sopravvivenza della nostra specie. Dobbiamo arrivare a legare l’umanità in un progetto comune, non è utopico, o almeno, è utopico quanto lo è credere che il mercato possa continuare a governare la società senza crollare su sé stesso.
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