Un approfondimento di Giovanni Scansani sull’importanza dell’educazione finanziaria in cui spiega come le aziende si avvicinino all’EF perché persone più capaci di far fronte alle proprie necessità saranno poi, anzitutto, lavoratori meno stressati da problemi
L’Italia (il Paese che ha inventato la banca) è in fondo alla classifica del G20 quanto a competenze in materia finanziaria ed economica. L’OECD ha promosso uno standard di misurazione dell’alfabetizzazione finanziaria riassunto in un indice (FL-Financial Literacy) costituito da tre componenti: la conoscenza (FK-Financial Knowledge), le attitudini (FA-Financial Attitudes) e il comportamento (FB-Financial Behaviour): in nessuno di essi siamo messi bene. Anche il recente Terzo Rapporto Edufin Index ci colloca sotto la sufficienza (56/100) evidenziando gap maggiori se si considerano il genere, l’area geografica di residenza e la generazione di appartenenza (male, ad esempio, i giovani fino a 24 anni). Molte le cause, a partire dall’istruzione, perché la scuola – almeno fino a ieri – nulla proponeva in proposito e ha sin qui sfornato futuri cittadini che, salvo quelli poi indirizzatisi verso studi specifici, si sono sempre dovuti “arrangiare” formandosi da sé o chiedendo in giro consigli agli amici o il parere di qualche consulente più o meno bravo.
Eppure le complessità dell’oggi e i molti mutamenti che riguardano la vita, il lavoro e i mercati finanziari, dovrebbero indurre a correre ai ripari. L’Educazione Finanziaria (EF) aiuta a fronteggiare proprio questa crescente complessità che, per di più, si manifesta in un’epoca dove l’unica certezza sembra essere l’incertezza.
L’azione dello Stato
Qualcosa, a dire il vero, da un po’ si muove. Esiste una “Strategia nazionale per l’educazione finanziaria, assicurativa e previdenziale” con tanto di corpose e specifiche “Linee Guida” messe a punto dal Comitato EDUFIN (il Comitato interministeriale per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria) per la realizzazione dei relativi programmi educativi (diversi a seconda che si rivolgano agli adulti o ai giovani) che, come si legge sul suo sito web, intendono <<innalzare tra la popolazione la conoscenza e le competenze finanziarie, assicurative e previdenziali e migliorare per tutti la capacità di fare scelte coerenti con i propri obiettivi e le proprie condizioni>>.
Lo Stato stesso si è dotato di un portale dedicato a questo tema – quellocheconta.gov.it – e ne ha uno tutto suo anche Banca d’Italia – economiapertutti.bancaditalia.it – mentre la recente L. 21/2024 ha introdotto, per la prima volta, l’EF nei programmi di istruzione a partire dall’anno scolastico in corso. Occorrerà tempo per disporre della prima generazione di cittadini “sgamati” che si sapranno muovere agilmente mentre intorno a noi la “financialization of daily life” (per citare il titolo del noto testo di Randy Martin), anche a causa della diffusione delle nuove tecnologie, prosegue incessante nella sua azione pervasiva di ogni aspetto della nostra vita.
Prima di tutto il salario
Mentre a livello di politiche sociali si corre ai ripari, uno sguardo va dato al non meno importante apporto che stanno fornendo le aziende, almeno quelle più avvedute e all’avanguardia che hanno introdotto percorsi di sviluppo delle competenze economiche e finanziarie dei lavoratori nel più ampio quadro delle iniziative che accrescono il valore e l’efficacia dei piani di Welfare Aziendale (WA).
Oltre alla questione, centrale, dell’empowerment delle persone rispetto a una tematica che riguarda molti aspetti del nostro agire (da un mutuo a un investimento, dalle scelte assicurative a quelle sulla previdenza complementare) i quali chiamano in causa, a loro volta, scelte che devono essere attentamente ponderate nel loro impatto prospettico e quindi tenendo conto degli eventi della vita e dell’evoluzione dei bisogni personali e familiari, le aziende si avvicinano all’EF perché persone più capaci di far fronte alle proprie necessità saranno poi, anzitutto, lavoratori meno stressati da problemi che non saprebbero altrimenti pienamente gestire, con evidenti postivi riflessi sulla produttività e sui costi dell’organizzazione complessiva del lavoro.
Già qualche anno fa c’era stato chi ci aveva informato (ItaliaOggi, 26.3.2018) che negli USA il 40% delle aziende aveva scelto di offrire ai propri lavoratori specifici programmi di EF, anche perché il 40% del turnover dei dipendenti risultava legato proprio alla speranza di poter risolvere i problemi finanziari cambiando lavoro, senza tacere il fatto che più del 60% degli incidenti sul lavoro – almeno negli Stati Uniti – risultava causato da stress dovuto alle preoccupazioni economiche personali e familiari.
Torniamo in Italia per dire che la diffusione dell’EF è senz’altro utilissima, è una misura di civiltà, ma che per poterla applicare nella sua pienezza i lavoratori devono poter disporre, anzitutto, di un congruo salario con il quale poter definire serenamente il proprio budget e l’allocazione delle risorse. Come sappiamo (ce lo dice l’OCSE) anche su questo siamo messi maluccio perché negli ultimi trent’anni (tra il 1990 e il 2020), qui da noi (e solo da noi), i salari sono regrediti del 2,9% (non così in altri Pesi europei come Germania e Francia). Dunque, se è senz’altro vero che l’EF evita (o riduce la probabilità) di trovarsi in condizioni di vulnerabilità economica, è altresì vero che l’EF ha sostanzialmente una capacità preventiva rispetto a queste fragilità per evitare le quali il primo strumento è un congruo livello salariale, capace di farci vivere decorosamente magari anche tenendo conto del costo della vita del luogo in cui si lavora (sta tornando in auge un certo dibattito su quelle che un tempo si chiamavano “gabbie salariali” perché, soprattutto in alcune città – in particolare al Nord con Milano in testa – lo stipendio che altrove può bastare in quelle aree si esaurisce presto, lasciando le persone del tutto sguarnite sul fronte del risparmio e della costruzione della propria serenità).
Lavorare in condizione di instabilità economica genera malessere sociale e psicologico, genera assenteismo e presenzialismo, induce – come si dirà – a frequenti richieste di anticipazioni: in sintesi lo stress finanziario riduce la serenità e le potenzialità delle persone, con ovvi impatti sulla qualità del lavoro, se bassa è anzitutto la qualità della vita stessa.
Il ruolo del Welfare Aziendale
L’EF lavora anche sulla componente soggettiva e comportamentale ed affianca ai metodi di gestione e di controllo delle spese e dei rischi, la costruzione di una rinnovata fiducia nei propri mezzi, rimuovendo le ansie da instabilità economica, restituendo alla persona la capacità di immaginarsi rispetto ai suoi obiettivi e di pianificarne il conseguimento.
Novembre è il “mese dell’educazione finanziaria” e molte sono le iniziative in corso, anche perché l’interesse per questi percorsi di crescita personale riguarda un po’ tutti, aziende incluse.
L’EF, contribuendo al benessere delle persone, possiamo associarla, guardando ai luoghi di lavoro, a tutti gli altri fattori con i quali poter ottenere una maggiore coesione e una più elevata produttività. Più in generale, passa anche da qui la riprova che, grazie a questo tipo di attenzione da parte datoriale (associata a quella che anima le restanti iniziative di wellbeing), si contribuisce alla costruzione di contesti organizzativi nei quali le persone possono trovare sostegni concretamente utili per la loro vita.
Si comprende, quindi, come l’attivazione di percorsi di EF possa rappresentare uno dei servizi più utili per accrescere l’efficacia dei piani di WA. Le imprese italiane più attente stanno introducendo percorsi di formazione specifici anche sulla base di qualche campanello d’allarme che suona già da un po’: stanno, infatti, crescendo le richieste di prestiti, di anticipazioni del TRF, di cessione del quinto dello stipendio e purtroppo, pur nei limiti previsti dalla legge, anche dei pignoramenti degli stipendi.
Cosa c’è dietro alla crescita di questi fenomeni?
C’è, spesso, l’indebitamento insostenibile, ossia il riflesso economico e finanziario negativo che discende da vicende della vita alle quali si giunge troppo spesso impreparati sul piano delle scelte da compiere e delle loro conseguenze sul budget personale e familiare. Basti pensare alla corretta rateizzazione di un acquisto, ai mutui o agli investimenti, per non dire delle scelte assicurative o di quelle relative alla previdenza complementare. Tutte questioni che richiamano scelte non facili, affrontate spesso senza gli strumenti giusti, il primo dei quali è la conoscenza.
Nel quadro delle iniziative di EF le più avvedute aziende includono, tra le fonti del complessivo pacchetto economico di cui tenere conto per una sua più razionale allocazione, anche il “Credito Welfare”, l’importo individuale di fonte contrattuale o regolamentare che ogni anno si assegna per le necessità sociali dei lavoratori e che si aggiunge al trattamento retributivo.
Anche qui c’è bisogno di “educazione” perché il Welfare Aziendale non è conosciuto dalla maggioranza dei lavoratori che se ne possono avvalere. L’ultimo report del CENSIS pubblicato quest’anno (il settimo, il che conferma che questa evidenza non è un’eccezione, ma ancora una regola) ci dice che quasi 1 lavoratore su 5 (il 18,2%) non conosce gli interventi di welfare di cui pure potrebbe disporre per contratto o grazie alle iniziative assunte in materia dal proprio datore di lavoro e ci dice anche che il 49,1% conosce solo a grandi linee l’offerta cui potrebbe accedere. Morale: solo 1 lavoratore su 3 conosce pienamente i contenuti del piano di welfare messogli a disposizione dalla sua azienda e questo nonostante la grande diffusione e lo sviluppo (anche normativo) che queste prassi hanno registrato negli ultimi dieci anni.
La nuova frontiera: tra Public Benefit e non-take-up
Di più recente emersione è il diffondersi della necessità di sviluppare la conoscenza di un ulteriore importante asset del quale dispongono le persone, anch’esso poco conosciuto e quindi poco sfruttato: ci si riferisce ai sostegni economici offerti dal Welfare Pubblico i quali, messi in stretta sinergia con gli ambiti di intervento del Welfare Aziendale (in buona parte oltretutto coincidenti), hanno la capacità di rafforzare (e non di poco!) il complessivo apporto economico che le misure di welfare tra loro integrate sono in grado di generare.
È il tema, oggi sempre più considerato dalle imprese, della cd. Welfare Integration, ossia del potenziamento dell’effetto di sostegno economico e di risposta ai bisogni che i due usuali benefit del welfare d’impresa (Fringe e Flexible Benefit) riescono ad attivare quando ad essi si affiancano i Public Benefit, ossia l’insieme dei numerosi bonus di fonte statale, regionale e comunale che possono essere acquisiti da persone e famiglie alla condizione, ovviamente, di conoscerli e di sapersi orientare nei meandri delle relative procedure burocratiche.
Si tratta di un enorme giacimento di risorse non sfruttate (è il cd. “welfare non riscosso” che nella letteratura scientifica è associato al fenomeno del non-take-up) che, se non inserite tra le opportunità offerte dai programmi aziendali di welfare, fanno emergere una situazione paradossale: l’effetto economico che quelle risorse sono capaci di generare nelle tasche dei lavoratori alle imprese, infatti, non costa nemmeno un centesimo (o, se si preferisce, quell’effetto è già stato “pagato” dalle aziende – e dai lavoratori dipendenti – perchè quel giacimento si alimenta anche e soprattutto con la fiscalità generale, ossia con il pagamento delle imposte: non sfruttarle è, dunque, un paradosso nel paradosso).
Per capire di più possiamo evocare l’immagine di un tavolo: se consideriamo i programmi di WA come un tavolo sul quale stanno le varie e numerose opportunità che possono essere sfruttate dai lavoratori, allora occorre non dimenticare che un tavolo, per stare saldamente in equilibrio ha bisogno di almeno tre gambe: Fringe e Flexible Benefit possono sostenere il tavolo in maniera più robusta se ad essi si aggiunge la “terza gamba” rappresentata dai Public Benefit.
Peraltro, anche la materia del Welfare Pubblico è poco nota ed anzi qui le cose vanno decisamente peggio rispetto a quanto evidenziato in precedenza a proposito del WA. Circa dieci anni fa Eurofound (in un report del 2015) aveva evidenziato come, a livello europeo, una media del 40% dei cittadini (con picchi anche del 60-70%) non conoscesse le misure pubbliche di sostegno (bonus, agevolazioni ed altre iniziative).
Una più recente analisi italiana condotta dall’INAPP nel 2022 ha sostanzialmente confermato quella percentuale: il 37% degli italiani non ha contezza delle misure economiche messe a disposizione dallo Stato, dalle Regioni e dai Comuni.
A queste percentuali contribuisce anche il fenomeno della desistenza, ossia quel buon numero di casi in cui, se anche tali misure si conoscono, non ci si attiva per acquisirle a causa delle complessità burocratiche che occorrerebbe affrontare.
Questo aspetto è poi tanto più vero quando il cittadino che non accede a bonus e agevolazioni pubbliche è un lavoratore: disponendo di un reddito (augurabilmente soddisfacente) egli lascia perdere trafile estenuanti per acquisire magari poche centinaia di euro. Inoltre, nel caso dei lavoratori, è all’opera anche un bias cognitivo: proprio il fatto di disporre di un reddito induce a credere di non essere eligibili per quelle misure, di non possedere i requisiti per il take-up dei bonus pubblici cui, invece, si avrebbe titolo (diritto) ad accedere (basti considerare che molte misure non hanno il “paletto” dell’attestazione ISEE e che i bonus più “ricchi”, laddove pure presuppongano un livello ISEE massimo per la loro acquisizione, fissano l’asticella ad un’altezza tale che lascia passare la maggior parte dei lavoratori dipendenti: è il caso, ad esempio, dei bonus che fissano il requisito ISEE a 40 o a 50mila euro).
Il mix tra gap informativo, desistenza e bias cognitivi fa lasciare sul “tavolo” del welfare, in media, qualcosa come 1.200 euro all’anno pro capite, ossia un valore persino superiore a quello medio dei piani di WA (che in Italia si attesta intorno ai 900€, ovviamente non considerando l’eventuale conversione dei premi di risultato). Da qui dunque la condizione di non completa efficienza di quei piani di WA che non mettendo i lavoratori nelle condizioni di conoscere e di completare l’offerta di welfare anche con la componente dei Public Benefit, pur avendo al centro le Persone – come recita il mantra degli HR manager – al centro hanno, in realtà, anche un vistoso “vuoto” di non irrilevante importo. Vi è da segnalare che le aziende, così come avvenuto a suo tempo per il WA grazie alla comparsa di numerosi Provider, hanno oggi a disposizione le soluzioni tecnologiche per colmare quel “vuoto” essendo comparsi sul mercato i cd. Welfare Integration Partner che con piattaforme e WebApp – nei casi più evoluti integrate nei portali dei principali Provider – completano l’offerta con tutto il restante welfare che può essere messo a disposizione dei lavoratori e delle loro famiglie.
Verso l’Educazione Finanziaria estesa
Conosciamo male le “regole del gioco” economico-finanziario, poco conosciute sono le misure del Welfare Pubblico e persino quelle del Welfare Aziendale, abbiamo difficoltà a mettere insieme i vari pezzi del puzzle con il quale costruire un’immagine chiara della nostra condizione economica complessiva e siamo poco avvezzi a ragionare tenendo conto del ciclo degli eventi della vita e quindi ad utilizzare una capacità di analisi prospettica. Occorre imparare a gestire meglio non solo la diponibilità del proprio reddito, certamente la fonte più importante che è necessario saper pianificare nel tempo (come triplice capacità di risparmio, di investimento e anche di indebitamento, purché ovviamente sostenibile rispetto alla propria economia personale e familiare), ma occorre saper gestire bene anche l’insieme dei benefit, sia quelli privati (Fringe e Flexible Benefit), sia quelli pubblici (Public Benefit).
L’EF, quindi, dev’essere intesa in maniera estesa se si vuole che sia efficace rispetto ai suoi obiettivi ed occorre che le persone che ne recepiscono i suggerimenti possano sapersi muovere con cognizione di causa su tutto il fronte economico-finanziario che li riguarda: quando si tratti di lavoratori, non dimenticando la componente dei benefit concessi come misura di WA (inclusa anche l’offerta degli Enti Bilaterali, anch’essa spesso poco nota) e senza tralasciare la componente rappresentata dai benefit di carattere pubblico cui il lavoratore, o uno o più dei suoi familiari, può avere titolo (ossia il diritto, in quanto cittadino) ad accedere.
Ex ducere per crescere
La funzione sociale delle imprese, dopo risolta la questione dell’attenzione ai bisogni extralavorativi delle persone (bisogni individuali e familiari) grazie alla diffusione del WA (oggi presente in più del 50% delle aziende, come ci dice l’ultimo report di Confindustria), si deve orientare verso l’introduzione di strumenti che possano espandere la capacità delle persone nel senso che ne potenzino le conoscenze e contemporaneamente ne rafforzino le capacità di analisi e di decisione (Educazione Finanziaria).
Educare, del resto, deriva da ex ducere, condurre fuori: nel nostro caso occorre trarre fuori dalle persone le loro capacità di risposta alle necessità della vita ed alle trasformazioni che le attendono. Il tutto, nell’ottica aziendale, per poter disporre di un capitale umano maggiormente capace di realizzarsi, di rispondere alle sollecitazioni della vita e quindi più pronto ad affrontarle potendosi porre, a vantaggio anche della produttività del lavoro, come persona più equilibrata non solo economicamente, ma anzitutto soggettivamente. Una persona in grado di agire con consapevolezza, quindi più libera e serena di fronte alle scelte che il ciclo della vita richiede di effettuare, per sé stessi e per la propria famiglia.
Del resto, la funzione sociale del Welfare Aziendale nel quale occorre integrare le potenzialità del Welfare Pubblico e i positivi effetti dell’Educazione Finanziaria, si dà alla condizione che sia centrale non solo la considerazione della persona come lavoratore, ma anche (e forse soprattutto) proprio del lavoratore come persona.
Giovanni Scansani
*co-founder BONOOS Srl-Società Benefit e docente a contratto presso l’Università Cattolica di Milano
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