Tutti gli effetti della riforma del 2015, che ha innalzato la durata dell’indennità di disoccupazione anche per le madri dimissionarie. L’intervento di Alessandra Servidori su una ricerca pubblicata da Neodomos
In un recente lavoro alcune colleghe e colleghi studiosi dei trend economici e occupazionali hanno pubblicato una ricerca su Neodomos che dimostra – numeri alla mano (Inps) e tabelle che parlano – gli effetti sulle scelte aziendali della riforma del 2015, che ha innalzato la durata dell’indennità di disoccupazione anche per le madri dimissionarie. Scelte aziendali che hanno potenziali effetti negativi sulla qualità delle opportunità lavorative delle giovani donne. La nascita di un figlio, lo sappiamo, limita spesso le opportunità lavorative delle madri, spingendole a ridurre il tempo dedicato al lavoro o ad abbandonarlo del tutto, mentre la carriera degli uomini non è generalmente influenzata dall’evento.
Ma qual è il ruolo delle imprese in questa dinamica? Come reagiscono alla maternità?
Le aziende possono rispondere alle dimissioni delle madri preferendo l’assunzione di uomini o donne più anziane, oppure offrendo contratti meno vantaggiosi alle giovani donne, a fronte dei maggiori costi attesi di sostituzione. Nel 2015, con l’entrata in vigore della Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI; d. lgs. 22 del 4 marzo 2015), la durata del periodo di fruizione dell’indennità di disoccupazione è sensibilmente aumentata, potenzialmente inducendo più madri a dimettersi.
Lo studio, che analizza le aziende con meno di 35 dipendenti, per le quali i costi per la sostituzione dei lavoratori sono verosimilmente più elevati, ha seguito le carriere delle lavoratrici e le dinamiche delle imprese per 36 mesi dopo la nascita. Per studiare la reazione delle aziende ha confrontato quelle in cui lavorano madri che, a seguito dell’introduzione della NASpI, hanno mostrato aumenti marcati nei tassi di dimissione dopo la nascita di un figlio, con le imprese che invece impiegano madri che hanno mostrato risposte meno rilevanti al cambio della durata dell’indennità di disoccupazione.
Le madri lavoratrici, intorno alla nascita del primogenito, rispondono maggiormente alla riforma e mostrano tassi di dimissione e di non occupazione più elevati (rispettivamente di 2,9 e 1,9 punti percentuali a 3 anni dalla nascita del figlio e contestualmente, e con un plausibile – seppure parziale – intento di compensazione, le imprese interessate riducono il tasso di licenziamento delle madri). Nelle imprese in cui crescono le dimissioni delle madri, il saldo tra assunzioni e cessazioni di posizioni lavorative alle dipendenze aumenta significativamente solo tra le donne (del 6,1 per cento), soprattutto tra quelle più giovani (tra i 20 e i 45 anni).
Non succede molto, invece, nella fascia di età più avanzata. L’espansione del saldo netto tra chi viene assunto e chi smette di lavorare è trainata da una crescita delle assunzioni superiore a quella delle cessazioni, con un incremento del turnover femminile, ossia del totale delle posizioni lavorative attivate e terminate. Per la sostituzione delle dipendenti che si dimettono, le aziende più colpite dalla riforma si rivolgono quindi al mercato del lavoro esterno piuttosto che a quello interno o alla riorganizzazione delle mansioni tra i lavoratori già in azienda. Nel farlo, le imprese preferiscono utilizzare contratti temporanei o comunque di breve durata: l’aumento del turnover si associa infatti a una riduzione permanente (fino a 36 mesi dopo la nascita) della quota di lavoratrici assunte con contratti a tempo indeterminato.
Per gli uomini non ci sono invece cambiamenti. I colleghi studiosi affermano, assumendosi una chiara responsabilità peraltro condivisa dalla scrivente, che questi risultati potrebbero segnalare la volontà delle imprese di ottenere nuovamente il controllo sul momento della cessazione del rapporto di lavoro, attraverso l’utilizzo di contratti di durata inferiore – quindi di minore qualità – per le donne. Contratti peggiori offerti alle donne, in particolare a quelle in età fertile, supportano l’ipotesi di discriminazione statistica nei loro confronti, ossia l’attribuzione a tutte le donne di un costo in termini di qualità del lavoro. Potrebbe quindi innescarsi un circolo vizioso in cui le donne, avendo meno opportunità di occupazione a tempo indeterminato, sarebbero ancora più propense ad uscire dal mercato del lavoro dopo la maternità.
È altrettanto chiaro che sebbene la previsione di un sussidio di disoccupazione per le madri che si dimettono miri a preservare il loro reddito in prossimità della nascita di un figlio, potrebbe avere ripercussioni negative sulla qualità delle loro opportunità lavorative.
Di fronte a questi dati inoppugnabili è interessante valutare i recenti dati Istat e del Rapporto annuale sulle dimissioni dell’Istituto nazionale del lavoro (Inl) nel corso del 2022, il cui numero delle convalide complessivamente adottate su tutto il territorio nazionale è stato pari a 61.391. Di queste, 44.699 (pari al 72,8% del totale) si riferiscono a donne e 16.692 (27,2%) a uomini, di queste dimissioni di lavoratrici, l’80 per cento avviene per difficoltà di conciliazione. Dunque, ancora una volta (e attendiamo il Rapporto annuale di quest’anno), per le donne all’indomani della nascita di un figlio è ancora oggi e di più un fattore che contribuisce al divario occupazionale e reddituali nel mercato del lavoro nostrano.
Sempre secondo i dati Istat, l’occupazione femminile delle madri tra i 25 e 64 anni è attualmente del 53/% contro l’83,5% dei padri e comunque difficoltà sono riconducibili alle dinamiche demografiche che stanno avendo un impatto profondo sul mercato del lavoro e su quello femminile in particolare, determinando un sempre più rapido slittamento in avanti dell’età media delle lavoratrici, pur in presenza di un innalzamento dei livelli occupazionali in tutte le fasce d’età. Con la sola esclusione della classe 55-64 anni, la popolazione femminile è diminuita in tutte le fasce d’età considerate, in particolare tra le 35-44enni, dove il calo è stato dell’11,8%.
Il costo sul mercato del lavoro della nascita di un figlio colpisce le madri e non i padri. Ma nella ricerca dei colleghi il fenomeno che maggiormente mi risulta interessante è contraddittorio rispetto sia alle politiche che abbiamo adottato recentemente (sostenere maggiormente le donne con più di due figli) sia questa certificazione di genere delle aziende che reputo ancora oggi e forse di più un impatto sul mercato del lavoro femminile assolutamente ancora non misurabile e – a parere di chi scrive – invece da evidenziare in tempi certi.
Sono tre gli obiettivi concordati con l’Unione Europea: il primo – l’unico raggiunto al momento – riguardava l’entrata in vigore del sistema di certificazione entro dicembre 2022. Il secondo, da raggiungere entro il 2026, è di far ottenere la certificazione ad almeno 800 imprese (di cui 450 micro, piccole e medie imprese) e di riuscire ad assicurare sostegno e assistenza tecnica a tal fine ad almeno 1000 imprese. In un tessuto produttivo come quello italiano, caratterizzato dalla prevalenza di micro, piccole e medie imprese, il principale limite con cui questo provvedimento si scontra è quello dei costi che un adeguamento in questi termini potrebbe comportare.
L’art. 5 della legge 162/21 introduce dei vantaggi economici diretti per le imprese – esonero contributi previdenziali, in misura non superiore all’1% e nel limite massimo di 50mila euro annui a impresa. Inoltre, la legge prevede anche vantaggi economici indiretti, come l’attribuzione di un punteggio premiale in caso di presentazione di proposte progettuali per ricevere finanziamenti valutati da parte delle autorità titolari di fondi europei, nazioni e regionali, ma anche una premialità legata al possesso della certificazione nelle procedure di gara e soprattutto lega la certificazione alla prassi degli enti certificatori ovviamente retribuendoli.
È poi importante ricordare che il Codice dei contratti pubblici non contiene alcun riferimento alla certificazione di genere così come prevista dall’art. 46 bis del Codice delle pari opportunità. In buona sostanza, dovremmo sicuramente, tra le altre politiche attive che devono sostenere le donne per entrare e rimanere nel mercato del lavoro, aumentare i congedi di paternità perché così le aziende avrebbero buoni motivi per non risultare poco amiche delle donne nonostante addirittura la rincorsa opportunista a questa certificazione di genere che per ora non ha dimostrato di essere utile alle donne.
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