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Il 15 luglio 2022, dopo oltre due anni di rinvii, è finalmente entrato in vigore il nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, approvato con il d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, e più volte modificato, prima con il c.d. Correttivo (d.lgs. 26 ottobre 2020, n. 147), da ultimo con il d.lgs. 17 giugno 2022, n. 83, di attuazione della Direttiva UE 20 giugno 2019, n. 1023.

Si tratta certamente di una novità importantissima per il nostro ordinamento, che si apre ai principi contenuti nella Direttiva Insolvency, il cui secondo considerando evidenzia programmaticamente come “… I quadri di ristrutturazione preventiva dovrebbero innanzitutto permettere ai debitori di ristrutturarsi efficacemente in una fase precoce e prevenire l’insolvenza e quindi evitare la liquidazione di imprese sane”.

Si tratta di un principio capace di innovare profondamente la filosofia di fondo del diritto concorsuale, che passa da una concezione statica, di tutela esclusiva della par condicio creditorum e di massimizzazione del soddisfacimento dei creditori, ad una concezione dinamica, nella quale la conservazione dell’impresa in attività – pur se eventualmente in capo ad un soggetto terzo – costituisce un valore tutelato, che deve coordinarsi con i diritti dei creditori e che, anzi, può ove necessario comportare una loro ragionevole compressione, purché lo strumento o la procedura con la quale si realizza la ristrutturazione non risulti dannosa per i creditori rispetto ad una ipotetica alternativa liquidatoria.

Continuità aziendale quale presupposto dei nuovi strumenti di soluzione della crisi

Fra le nuove parole-chiave del Codice ve ne è una, in particolare, che pur non essendo contenuta nei primissimi articoli dedicati alle nuove definizioni, ha un ruolo centrale.

Si tratta del concetto di continuità aziendale.

Un concetto non nuovo per il nostro paese – sul quale ad es. si era costruita una tormentata esegesi dell’art. 182 bis l.f. – eppure oggi declinato in modo innovativo dall’art. 84 del Codice che, con pragmatica semplificazione, individua il suo epicentro nella prosecuzione diretta o indiretta dell’attività di impresa quale elemento fondante della ristrutturazione dei debiti, risultando irrilevante che i flussi derivanti da questa prosecuzione siano maggioritari o meno, rispetto al restante attivo messo a disposizione dei creditori.

Questa nozione, pure contenuta in una norma dedicata specificamente al concordato preventivo (appunto in continuità e così distinto da quello puramente liquidatorio), riaffiora in realtà in più punti del codice, fino a delineare un vero e proprio fil rouge intorno al quale si delineano strumenti e procedure di ristrutturazione del debito alternative a quelle liquidatorie e caratterizzate da regole assolutamente innovative ed esclusive.

Seguendo la “topografia” del nuovo Codice, è evidente come la continuità rappresenti di fatto il presupposto necessario per poter accedere agli strumenti contrattuali previsti quale possibile esito positivo di una fase di composizione negoziata. L’art. 23 CCI è infatti chiaro nel delineare una possibile soluzione della crisi incipiente attraverso un contratto idoneo ad assicurare la continuità per almeno due anni, come pure una conclusione contrattuale sottoscritta e ritenuta coerente dall’esperto, che può produrre gli stessi effetti del piano attestato di risanamento. Tali modalità di uscita dalla crisi non sembrano infatti compatibili con una impresa ormai definitivamente insolvente, nella quale si siano perdute le utilità legate alla prosecuzione dei contratti in corso, o si sia verificata la dissoluzione dei valori legati all’avviamento ed alla posizione nel mercato che l’azienda deve mantenere per proseguire la propria mission.

Simile conclusione, per il vero, vale anche per il piano attestato di risanamento e per gli accordi esecutivi di esso (vds. art. 56 CCI), se si considera che la preferibile dottrina da sempre individua proprio nel “risanamento” il carattere precipuo di questo strumento non concorsuale, non compatibile pertanto – o perlomeno non in grado di garantire gli effetti protettivi ad esso legati – con un’ottica essenzialmente liquidatoria e dismissiva.

La necessità della continuità aziendale, inoltre, sta alla base dell’introduzione degli accordi ad efficacia estesa (art. 61 CCI). Il mix di libera negoziazione della crisi e la possibilità di estensione degli effetti voluti dalla maggioranza qualificata dei creditori a quelli renitenti, che potrebbero in modo arbitrario impedire una soluzione nel complesso più favorevole e adeguata alle stesse aspettative dei creditori che in maggioranza l’hanno avallata, appare tale da rendere questo strumento particolarmente competitivo rispetto ad altre procedure tradizionali. Il tutto passando attraverso una ripartizione dei creditori in “categorie”, secondo quel sistema di classamento dei crediti che, come subito si vedrà, appare una delle novità maggiori del concordato preventivo con continuità aziendale, diretta o indiretta che sia. Non va poi dimenticato che, ove la crisi sia stata tempestivamente affrontata attraverso la composizione negoziata, allora anche la percentuale necessaria per ottenere l’estensione degli effetti ai creditori “recalcitranti” discende dall’ordinario 75% al 60% degli appartenenti alla categoria interessata, con un notevole incentivo ad affrontare precocemente la situazione di difficoltà economico-finanziaria o patrimoniale dell’impresa.

Il concordato in continuità

E’ nel concordato preventivo, che il concetto di continuità aziendale è destinato a “farla da padrone”, tanto è vero che, già da oggi, è possibile intuire come proprio alla luce di tale criterio discretivo sarà possibile delineare uno statuto del concordato liquidatorio nettamente distinto e sfavorevole rispetto a quello destinato a regolare le ristrutturazioni compiute attraverso il concordato preventivo in continuità. Per esigenze di spazio, tali differenze non possono che essere in queste note semplicemente schematizzate:

a) in tema di soddisfacimento dei creditori la possibilità, soltanto nel concordato in continuità, di individuare un surplus legato alla prosecuzione dell’attività di impresa che può essere destinato ai creditori secondo un progetto di distribuzione non più fondato sull’APR (absolut priority rule) e quindi su un rigoroso ed integrale rispetto dell’ordine delle cause legittime di prelazione, bensì sul modello unionale dell’RPR (relative priority rule), il quale consente di passare al grado inferiore senza aver tacitato completamente i creditori con prelazione superiore, purchè questi ultimi comunque ricevano “qualcosa in più” di quelli meno preferiti;

b) una diversa modalità di espressione e valutazione dei voti per cui, soltanto nel concordato in continuità, si può contare su una maggioranza diversa e apparentemente più semplice da raggiungere: infatti se è vero che in linea tendenziale il concordato in continuità deve ricevere il voto totalitario delle classi (vi è infatti un obbligo di classamento per tutti i creditori in tal caso), non di meno tale risultato può essere comunque “surrogato” e ritenersi raggiunto con il voto favorevole dei due terzi dei crediti votanti, purchè nella classe in cui non si è raggiunta la maggioranza abbiano votato almeno la metà dei crediti ivi inclusi; si evidenzia che simile sistema di voto appare previsto anche per un nuovo istituto – il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (art. 64 bis CCI) – di cui taluno ha messo in evidenza la possibile disarmonia sistematica (non essendo espressamente limitato alle soluzioni in continuità) ed il rischio di abusi (potendo derogare completamente alle regole della graduazione), di cui la elaborazione pratica dovrà saggiare l’utilità;

c) la possibilità di far luogo, in sede di omologazione del concordato in continuità, alla c.d. cross class cram down (prevista nell’art. 11 della Direttiva), per cui il concordato può essere comunque omologato in mancanza di voto unanime favorevole di tutte le classi, quando fra quelle consenzienti si contino classi particolarmente rappresentative e per quelle dissenzienti sia previsto un trattamento non deteriore rispetto all’alternativa liquidatoria;

d) diverso appare, inoltre, nei due diversi casi di concordato, l’ambito valutativo affidato al tribunale:

  • 1. per il concordato in continuità la valutazione di “fattibilità” – che perde ogni aggettivazione “economica” – è più semplicemente volta a verificare che “il piano non sia privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza” e, se previsti, che “eventuali nuovi finanziamenti siano necessari per l’attuazione del piano e non pregiudichino ingiustamente gli interessi dei creditori”;
  • 2. nel caso di concordato liquidatorio, invece, la verifica giudiziale deve incentrarsi sulla “non manifesta inettitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati”; resta invece ferma, per entrambi i tipi di concordato, la possibilità di rilevare profili di inammissibilità o situazioni tali da comportare la revoca dell’ammissione alla procedura (il “vecchio” art. 173 l.f. è in questo senso sostituito e ripreso dal nuovo art. 106 CCI).

 

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